L’aumento di capitale è lento, l’investitore scappa

L’aumento di capitale è lento, l'investitore scappa

Ubi, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi, probabilmente UniCredit. Le banche italiane si stanno dolorosamente organizzando per reperire nuove risorse fresche sul mercato. Ricapitalizzarsi, tuttavia, significa imbarcarsi in un viaggio lungo più di tre mesi, intraprendendo un percorso macchinoso.

Stando a una tempistica standard e indicativa, sono almeno 100 i giorni che intercorrono da quando l’assemblea degli azionisti delibera un aumento di capitale a quando termina il periodo di emissione. Esattamente 98 considerando la pubblicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea in Gazzetta Ufficiale, 120 se si parte dalla lettera di convocazione da parte del presidente del cda. Soltanto per effettuare la prima convocazione dell’assemblea, la Gran Bretagna ci mette 14 giorni, Lussemburgo, Paesi Bassi e Svizzera 15, Austria e Belgio 20. In linea con l’Italia, a quota 30 giorni, Francia e Spagna. «Si potrebbe intervenire sul Testo Unico della Finanza per accorciare la fase di preparazione dell’assemblea in caso di aumento con esclusione o limitazione del diritto d’opzione» riconosce, parlando con Linkiesta, Luca Enriques, commissario Consob dal 2007.

Guardando alle operazioni più recenti, l’aumento di capitale del Banco Popolare da 2 miliardi di euro, annunciato il 24 ottobre 2010 e approvato dall’assemblea dei soci il 12 dicembre, è stato chiuso definitivamente lo scorso 23 febbraio. Quattro mesi. I tempi invece si ridurranno di circa 30 giorni per l’aumento da 450 milioni annunciato da Fonsai lo scorso 23 marzo, sottoscritto da UniCredit per il 6,6% del capitale post-aumento. Le deleghe, infatti, sono già state attribuite al cda. Una volta riunito il consiglio per formalizzare il deal, e dopo aver incassato l’ok da parte della Consob, la chiusura è dunque prevista entro l’estate. 

Lo spettro dei nuovi requisiti di capitale fissati da Basilea III, oltre alle tensioni macroeconomiche, rendono arduo, oggi, cogliere una finestra temporale agevole per questo tipo di operazioni. Ne deriva un “effetto scoramento” sulla piazza italiana. Il tempo implica un costo che gli investitori conoscono bene, soprattutto se si tratta di soggetti istituzionali. Contemporaneamente, il garantismo del regolatore nei confronti del piccolo risparmiatore si scontra con la scarsa tempestività della procedura, mentre l’allungamento dei tempi espone tutti, emittenti e investitori, a un aumento dei rischi. Se la girandola di voci e smentite fa parte del gioco speculativo che fa da sfondo ad ogni operazione di questo genere, come nei recenti casi di Zucchi ed Edison, è altrettanto vero che l’ammontare totale delle emissioni delle società italiane, nel 2010, è stato inferiore alla media europea. L’anno scorso sono stati sottoscritti soltanto 13 aumenti di capitale per un totale di 5 miliardi di euro rispetto ai 327 deal (14 miliardi di sterline) della Gran Bretagna, e alle 66 operazioni per 17,3 miliardi di euro della Germania (fonte Dealogic). 

La lentezza del processo di ricapitalizzazione dipende da diversi fattori. A partire dall’aspetto normativo. «Un problema riguarda la disciplina societaria, l’altro la disciplina di appello al pubblico risparmio», osserva Gian Domenico Mosco, professore di Diritto commerciale presso la Luiss di Roma. Sul primo punto, l’anello debole sta nel primo passo dell’iter di un aumento di capitale, ovvero – una volta approvato il deal da parte del cda – i 30 giorni necessari per la fissare l’assemblea degli azionisti (dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della convocazione) per avallare l’aumento di capitale. Soltanto a questo punto, la Consob inizia formalmente la revisione del prospetto. In termini assoluti, soltanto la Germania è più lenta: 37 giorni.

L’altro tema importante, tutto italiano, riguarda le deleghe al cda. Le decisioni che riguardano la raccolta di capitale di rischio passano sempre dall’assemblea degli azionisti. Una questione culturale: i cugini transalpini rinnovano annualmente le deleghe, così come gli spagnoli, per operazioni fino al 50% del capitale emesso, come i tedeschi. In Italia, al contrario, non c’è l’abitudine dei soci ad affidare l’incombenza ai consiglieri. Commerzbank, Hypo Real Estate, Axa, Bnp Paribas, Banco Popular, SocGen sono soltanto alcuni dei big europei i cui cda hanno deliberato, via delega, un rifinanziamento con capitale di rischio.

«La famosa delega 2443 del Codice civile, in alcuni Paesi come la Francia, è sempre presente», dice Claudia Parzani, partner dello studio legale internazionale Linklaters. «Ciò significa – continua l’avvocato, che ha seguito l’ultima emissione di Unicredit – che è possibile, e anche il nostro ordinamento consente questo tipo di flessibilità, deputare al consiglio di amministrazione la facoltà di approvare un aumento di capitale senza il passaggio assembleare. Dal punto di vista dell’azionariato – spiega ancora Parzani – la gran parte delle società italiane hanno la possibilità di inserire nel proprio statuto deleghe ad aumentare il capitale sociale, il cui inserimento richiede l’approvazione da parte dell’assemblea straordinaria mediante i suoi quorum standard (quando non sia richiesta l’esclusione del diritto d’opzione) e certamente non problematici da raggiungere, ad esempio, quando l’azionariato presenta un socio che detiene di più della maggioranza del capitale votante». 

A questo punto, prima dell’esame del mercato, la società deve aspettare l’ok della Consob. Nella prassi, altri due mesi. «L’armonizzazione della normativa, in Europa, non riguarda ancora i tempi di esecuzione, in quanto ogni autorità regolamentare, nei singoli Paesi, ha procedure proprie per la verifica della compliance e della corretta comunicazione ai mercati», riflette Duccio Regoli, ordinario di Diritto commerciale dei mercati finanziari alla Cattolica di Milano. 

Additare alla presunta lentezza dell’Authority gli scarsi volumi rastrellati dalle quotate italiane nel corso del 2010, tuttavia, sarebbe un errore: «oggi», sottolinea senza mezzi termini Mosco, «la vera questione è trovare sottoscrittori di un aumento di capitale». A dimostrazione, uno studio di prossima pubblicazione, curato dal docente dell’ateneo romano, che evidenzia come, dal 2005 al 2007 il numero di società sbarcate sul listino ha seguito logiche puramente economiche, nonostante le strette regolamentari della Legge sul Risparmio del 2005, e le integrazioni al Testo unico della finanza del 2007 riguardanti gli intermediari finanziari. Quindi sia per la quotazione sia per le ricapitalizzazioni il problema sembra essere lo stesso: l’esiguità della platea interessata. 

C’è poi il tema delle azioni non ancora sottoscritte, il cosiddetto “inoptato”. La lunghezza dell’offerta a cui segue l’asta dell’inoptato, cioè cinque sessioni di Borsa (norma di legge inderogabile tipica soltanto delle norme italiane), rende quasi impossibile realizzare operazioni senza sopportare uno sconto significativo rispetto al cosiddetto Terp (Theoretical Ex Right Price), soprattutto quando il mercato è volatile. Le banche chiamate a garantire il buon esito dell’offerta, infatti, devono obbligarsi ad un determinato prezzo per un periodo molto lungo. Inoltre, l’indisponibilità dei titoli fino a fine offerta rende ancora più difficile realizzare, per un’azionista, operazioni per monetizzare i propri diritti, senza però affossare il mercato dei diritti e delle azioni mediante collocamenti privati effettuati a ridosso dell’offerta (tipici, ad esempio, del mercato tedesco).

Tornando alla procedura, la tipica obiezione degli studi legali è la seguente: perché non avere un prospetto unico per equity e debito, valido annualmente, in modo da facilitare il lavoro di revisione del regolatore? Nota ancora Enriques: «Si dovrebbe studiare come rendere più conveniente per gli emittenti l’aggiornamento periodico del documento di registrazione, in modo da sottoporre alla Consob, in occasione dell’aumento di capitale, la sola nota informativa riguardante gli strumenti finanziari, oltre alla nota di sintesi, con tempi più brevi per la relativa approvazione». Una riforma a costo zero che, in base ad un documento interno di Linklaters, porterebbe a 50 i giorni necessari all’aumento di capitale, rendendo meno costoso il giudizio del mercato italiano, e allineandolo con il resto d’Europa. 

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