In un immaginario dialogo con Cesare Geronzi a proposito della sua recente progressione di carriera (da Unicredit-Capitalia a Mediobanca fino alla presidenza di Generali), c’erano tutte le ragioni per parafrasare la famosa domanda lanciata da uno sgomento Charlie Sheen all’imperturbabile Gordon Gekko di Wall Street. A dire “basta” sono stati i dieci consiglieri di amministrazione di Generali (su diciassette) che volevano votare una mozione di sfiducia contro Geronzi, ma che infine sono stati preceduti dalle sue dimissioni, in questo caso davvero “spintanee”.
Il presidente e il Ceo di una grande compagnia come Generali rappresentano due ruoli molto diversi, che dovrebbero evitare di sovrapporsi, specialmente in pubblico. Da questo punto di vista, la maggior parte dei commentatori aveva trovato molto strana –per usare un eufemismo – l’intervista al Financial Times in cui Geronzi era entrato a piè pari nei temi della gestione operativa di Generali che sono di competenza del Ceo Perissinotto, auspicando tra le altre cose la partecipazione della compagnia al finanziamento del ponte sullo Stretto di Messina. Beninteso: il ponte sullo Stretto potrebbe anche essere l’affare imprenditoriale del millennio; tuttavia, se una società quotata come Generali ha lo scopo minimo di creare valore per gli azionisti, è molto difficile che dispute pubbliche sulle sue scelte strategiche possa contribuire positivamente rispetto a questo obiettivo. Dall’altro lato i chiarimenti in pubblico possono aprire lo spazio per un cambiamento netto di strategie e persone. Così è stato per Generali.
Secondo Keynes i mercati azionari votano anche troppo spesso sulle prospettive future delle imprese, inducendo a scelte di breve respiro. Per quanto un mercato azionario possa assomigliare ad una democrazia, è comunque meglio votare troppo spesso che non votare mai. E nel caso in questione il voto dei mercati è stato chiaro: l’exploit del titolo Generali immediatamente dopo l’annuncio delle dimissioni di Geronzi dà l’idea che gli investitori siano più fiduciosi sulle prospettive future di una Generali che fa a meno di Geronzi e di un contrasto continuo tra presidente e Ceo.
Mediobanca resta l’azionista di riferimento di Generali, che è una società contendibile ma forse troppo grande da scalare, specialmente in tempi incerti come quelli attuali. Geronzi è saltato dalla presidenza di Mediobanca a quella di Generali, e in un film western si direbbe che è stato impallinato alle spalle dai consiglieri espressi dalla stessa Mediobanca, che si sono alleati con i consiglieri indipendenti Calari, Carraro e Sapienza.
La logica del film western vuole una chiara distinzione tra buono e cattivo (per tacere del brutto): il cattivo Geronzi, cardinalesco rappresentante del capitalismo di relazione in salsa italica, ha perso di fronte ai rinsaviti consiglieri di Mediobanca e ai buoni consiglieri indipendenti. Ma le visioni manichee dell’esistente difficilmente sopravvivono all’esame dei fatti. Ad esempio è difficile pensare a Diego Della Valle (che aveva iniziato le danze polemiche contro Geronzi) come corpo estraneo ed innocente che si scaglia contro il capitalismo di relazione e le sue storture. Forse dal film western bisogna con una certa nonchalance passare alla tragedia greca. In un sistema finanziario dove la preservazione del controllo delle imprese da parte di famiglie e gruppi interconnessi ha spesso la meglio sull’obiettivo minimale della creazione del valore per tutti gli azionisti, un tipo di manager come Cesare Geronzi può benissimo prosperare per lungo tempo, ma deve pur sempre badare al rischio eterno della tracotanza e dell’accecamento. Forse Generali, la terza compagnia assicurativa europea e l’antica patria dei cassettisti, era un boccone troppo grosso anche per lui.
*Università di Pavia