L’ennesimo attacco dei pirati somali nel Mare arabico questa volta ha avuto come bersaglio la motonave italiana «Rosalia D’Amato» in navigazione dal Brasile all’Iran. Sarebbero 21 i membri dell’equipaggio (6 italiani e 15 filippini) trattenuti dai pirati che si sarebbero impossessati del ponte di comando. Seguono da vicino la nave che sembra far rotta verso le coste della Somalia settentrionale le navi della European Union Naval Force Somalia (Unavfor) che hanno per l’appunto il compito di pattugliare le coste tra Mar arabico e Mar Rosso per scoraggiare gli attacchi dei pirati ai convogli commerciali.
L’attività predatoria di questi pirati moderni va messa in relazione con il più ampio quadro della perdurante crisi somala. Dopo la caduta del dittatore Siyad Barre nel 1991 la Somalia è discesa in una guerra civile che sembra senza soluzioni e della quale ricorre quest’anno il ventesimo anniversario. Dopo il fallimento dello Stato e degli interventi umanitari e di pace internazionali la Somalia è stata abbandonata a sé stessa per ritornare recentemente agli onori della cronaca come seconda casa dei terroristi internazionali (dopo o in alternativa all’Afghanistan) oppure come patria dei pirati appunto. In realtà nei venti anni di conflitto lo spazio somalo ha subito un profondo e complesso percorso di ricomposizione politico e sociale che ha portato alla frammentazione della nazione somala. Se a Sud, a Mogadiscio, si continua a combattere nel Nord l’autoproclamata Repubblica del Somaliland ha raggiunto un grado di stabilità politica e di ricomposizione socio-istituzionale considerevole.
La Somalia centro-settentrionale (l’ex Migiurtinia ai tempi del colonialismo italiano) si è progressivamente sganciata dalle logiche del conflitto che imperversa a Mogadiscio, proclamando la propria autonomia nel 1998 con il nome di Puntland (la mitica terra dell’incenso e delle spezie narrata nelle cronache degli antichi Faraoni egiziani). È proprio nella capitale della regione, Garowe, che hanno dimora i più famigerati tra i moderni pirati. Il governo del Puntland si regge infatti su un regime fortemente autoritario e corrotto, colluso con i traffici legati alla pirateria.
La maggior parte degli attacchi, che nel 2010 hanno raggiunto il picco massimo (217 in totale per una stima di 60 e forse 80 milioni di dollari pagati in riscatti dalle compagnie o per l’equivalente di beni predati), partono da città costiere del Puntland, in particolare Eyl e Bosaso che ai tempi della guerra fredda era un’importante base della marina sovietica. I beni predati e soprattutto i riscatti pagati sono diventati insieme a tanti altri traffici illeciti (dalle armi allo smaltimento dei rifiuti tossici) una delle prime voci di quel ciclo economico legato all’illegalità che caratterizza l’intera penisola somala ormai da due decenni.
Le autorità del Puntland e il suo presidente Abdirahman Mohamud Farole non hanno la forza e probabilmente neppure la convenienza per reprimere con efficacia i trafficanti illegali e i pirati, mentre Stati Uniti ed Europa dopo il fallimento della missione di pace Onu nel 1995 non hanno più pensato di poter assumersi il rischio di un intervento di terra. La missione di pace dell’Unione africana (Amisom) riesce al più a garantire nella capitale Mogadiscio il controllo del porto, dell’aeroporto e dei principali compound che ospitano il governo federale di transizione, mentre il pattugliamento navale della forza internazionale non è evidentemente risolutivo per la sicurezza della regione.
Il risultato è che nel Puntland, un quasi-Stato dove non esistono partiti politici e le logiche di governo rinviano direttamente alla spartizione del potere tra i diversi sotto-clan daarood, i pirati si riprendono nel modo più cruento possibile alcuni frammenti di quella sovranità internazionale negata loro dalla guerra e dall’empasse politico nel quale l’intera Somalia continua a trovarsi.
*Docente in Storia dell’Africa, Università di Pavia