Giulio Tremonti è più forte. Gianni Letta ancora più debole. E Berlusconi? Nel mezzo, in mezzo a un guado che non finisce mai. La sconfitta di Geronzi a Trieste non tocca solo gli equilibri profondi del sistema finanziario italiano e milanese. Impatta anche, se non soprattutto, sulla capitale politica. Perché Geronzi è banchiere romano per antonomasia; e perché di legami con la politica – tutta, o quasi – ha fatto la sua storia, e un pezzo di storia di questo paese. Che penserà o dirà ad esempio Giulio Tremonti in queste ore?
L’ultima volta che si oppose al potere di Geronzi quello che ci lasciò le penne fu lui, il ministro dell’Economia. Erano in corso le inchieste sul collasso del gruppo alimentare di Sergio Cragnotti mentre anche la Parmalat di Calisto Tanzi approdava sui tavoli delle procure. Due vicende direttamente legate alla figura di Cesare Geronzi e per le quali il power broker romano (così lo chiama la stampa estera che non lo definisce “banchiere”) è ancora sotto processo. In un’intervista del dicembre 2003 fu l’allora presidente di Consob Lamberto Cardia a sottolineare che le obbligazioni di Collecchio erano finite nel mirino dell’authority proprio su suggerimento del ministro. Due vicende che videro Giulio Tremonti scontrarsi frontalmente con il banchiere di Marino ma che, appunto, costarono al ministro dell’Economia la poltrona. Le dimissioni arrivarono infatti nel luglio 2004, sei mesi dopo che il crac di Collecchio era diventato il maggiore scandalo finanziario in Europa.
Questa volta le cose sono andate diversamente ed è lui, Cesare Geronzi, ad essere stato costretto a mollare. Nonostante la vulgata dica che sia stato proprio Tremonti ad appoggiare l’ascesa di Geronzi allo scranno triestino, chi parla col ministro sottolinea che più che di un appoggio vero e proprio, via Tremonti si sarebbe semplicemente limitata a non opporsi. Ma il regolamento di conti che ha portato alla fine della stagione di Geronzi a Trieste (iniziata il 24 aprile dell’anno scorso) va ben oltre il conflitto fra Della Valle e Bolloré e coinvolge i due uomini forti del governo: vale a dire, oltre a Tremonti, l’eminenza grigia del potere andreottiano, Gianni Letta.
Già indebolito dalle indagini su Luigi Bisignani, l’altro grande sodale del potere andreottiano, lo sconfitto in questa storia appare proprio lui, l’ex direttore del Tempo diventato l’eminenza grigia di Silvio Berlusconi: nei rapporti con Oltretevere e più in generale con il mondo un tempo rappresentato dal sette volte Presidente del consiglio. Non è un mistero che Geronzi sia sempre stato la quinta essenza di questo apparato di potere nel mondo della finanza. Il banchiere romano ha spesso ricordato il suo legame di stima con Guido Carli, altra colonna portante di quel mondo. E quando traslocò a Piazzetta Cuccia per assumerne la presidenza si portò dietro, nel tempio della finanza di matrice politica azionista, il giovane avvocato Marco Simeon, molto vicino alla Curia genovese, che anche negli uffici romani della banca d’affari aveva la responsabilità dei rapporti col Vaticano.
Si racconta che prima di arrivare alla defenestrazione di stamane le linee telefoniche fra Milano e Roma siano stato particolarmente intasate. Già l’ultima ondata di nomine ai vertici delle società controllate dal Tesoro è stata giudicata come un round a favore di Tremonti. E non è infatti plausibile che per arrivare ad una decisione come questa non si siano prima sondati i poteri che contano. Non sarà un ritorno della scatola di pelati, ma questa storia, assieme a ribadire la centralità di Mediobanca, segna di sicuro un altro punto a favore di via Venti Settembre.