Giovedì 6 dicembre 2007, 1.30 di notte. Sulla linea 5 dell’acciaieria ThyssenKrupp di Torino, adibita al trattamento dei laminati, tracima una vasca di olio bollente, utilizzato nella loro lavorazione. Gli operai cercano di spegnere l’incendio che cominciava a svilupparsi utilizzando acqua ed estintori, ma una fiammata li colpisce. Antonio Schiavone, 36 anni, muore carbonizzato poco dopo. Bruno Santino e Giuseppe De Masi vengono ricoverati con gravissime ustioni su tutto il corpo, come Angelo Laurino e Rosario Rodinò. Prognosi riservata per Rocco Marzo e Roberto Scola. La mattina dopo, la città si sveglia senza Roberto Scola, 32 anni, ustionato sul 95% del corpo. Alle 17.45 scompare Angelo Laurino, 43 anni. In tarda serata muore anche Bruno Santino, 26 anni. «La notizia di altri morti è spaventosa», dirà il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Le condizioni di Giuseppe De Masi, Rosario Rodinò – entrambi 26 anni – e Rocco Marzo (54 anni) rimangono critiche. Una battaglia troppo grande: nessuno di loro vedrà il nuovo anno.
Mentre sotto la Mole venivano spenti i fuochi d’artificio di San Silvestro in segno di lutto per le vittime di quella che in città veniva riconosciuta come la fabbrica dei «30enni», il procuratore di Torino, Raffaele Guariniello coadiuvato dai sostituti Laura Longo e Francesca Traverso, apre un’inchiesta. Amara ironia della sorte: qualche giorno prima dell’incidente, la ThyssenKrupp aveva annunciato la chiusura degli stabilimenti piemontesi, per spostare a Terni l’unico polo produttivo italiano. Monta la rabbia degli altri operai: pare che gli estintori in dotazione fossero semivuoti, e negli idranti non ci fosse abbastanza acqua. Prove schiaccianti, come furono definite dal mondo sindacale, che la procura dovrà verificare. Il Palazzo di Giustizia, dopo appena due giorni, sembra già avere «un quadro già chiaro» della dinamica dell’incidente, secondo le voci che si rincorrono nei giorni immediatamente successivi alla tragedia.
Nelle prime settimane di gennaio 2008, spunta un documento segreto in cui i vertici della Thyssen avrebbero effettuato delle valutazioni negative in termini dell’eccessiva presenza mediatica degli operai che si sono salvati dal rogo, che impedirebbe un’oggettiva analisi disciplinare. Dossier dal quale, in un incontro con il ministro del Lavoro Cesare Damiano, i top manager della multinazionale tedesca prendono nettamente le distanze. Tuttavia, come denuncia il segretario della Fiom di Torino, Antonio Giraudo, l’azienda comincia a far firmare ai dipendenti un verbale che esclude la possibilità di costituirsi parte civile in procedimenti penali contro l’impresa o i suoi dirigenti.
La prima udienza preliminare si celebra al caldo di inizio luglio, in un clima che le cronache dell’epoca definiscono tranquillo. La notizia è però la rinuncia, da parte della Thyssen, di costituirsi parte civile. In quel periodo, arriva anche la decisione della società di risarcire le vittime con 12 milioni di euro.
Passano trecento giorni dalla notte del rogo. Il 14 ottobre 2008, durante l’udienza preliminare, il Tribunale di Torino accoglie le richieste di Guariniello e rinvia a giudizio per omicidio volontario con dolo eventuale Harald Espenhahn, amministratore delegato della società tedesca, e per omicidio colposo altri cinque top manager, oltre all’accusa di omissione delle cautele antinfortunistiche. Vengono ammessi come parte civile Regione Piemonte, Provincia e Comune di Torino, 46 lavoratori, i sindacati e l’associazione Medicina Democratica.
Dopo le ricostruzioni dei medici legali, che a luglio avevano trasmesso unvideo con la ricostruzione degli attimi più drammatici dell’incidente, il processo va avanti. L’accusa prova a rallentare l’udienza del 27 ottobre 2009 chiedendo che la deposizione dei manager tedeschi avvenga per iscritto – la difesa, smentita dai fatti, sostenne che il top manager tedesco non conosceva l’italiano – e a fine novembre 2009 emerge un altro scandalo: secondo i pm alcuni dirigenti della società avrebbero tentato di approcciare i testimoni del rogo per inquinarne la deposizione. Vicenda che aprì un altro filone, con altri indagati.
Verso la fine del 2010, al termine di una requisitoria-fiume, il pm Guariniello ha chiesto 6 condanne per 80 anni di carcere complessivi, tra cui 16 anni a Harald Espenhahn, l’amministratore delegato di Thyssen, accusato di omicidio volontario con dolo eventuale, e 13 anni e sei mesi per i consiglieri Gerard Priegnitz e Marco Pucci, per il direttore dello stabilimento, Raffaele Salerno, e per Cosimo Cafueri, responsabile per la sicurezza della fabbrica torinese. Di poco inferiore, 9 anni, la pena per Daniele Moroni, responsabile dell’area tecnica e servizi. A cui si aggiunge il filone della responsabilità amministrativa dell’azienda: un milione e mezzo di euro di sanzione, confische per 800mila euro divieto di pubblicità per un anno ed esclusione dai contributi pubblici. A cui si aggiungono i complessivi 9 milioni di euro complessivi richiesti dalle parti civili: un milione e mezzo per Comune e Provincia di risarcimento danni ambientali e sei milioni per la Regione. Oltre ai 150mila euro richiesti dalle sigle sindacali. Stasera la sentenza: sono state tutte accolte le richieste dell’accusa. Solo per Daniele Moroni la Corte ha aumentato la pena a 10 anni e 10 mesi. I giudici hanno quindi accolto in toto le richieste dei pubblici ministeri confermando l’accusa di omicidio volontario con dolo eventuale per l’amministratore delegato del gruppo tedesco, Harald Espenhahn, condannato a 16 anni e mezzo di reclusione. Confermata la condanna a 13 anni e 6 mesi per i 4 dirigenti: Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri.