In Libia la parola è ancora alle armi dopo che l’11 aprile scorso è fallita l’iniziativa diplomatica dell’Unione africana guidata dal Sud Africa. Il Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) ha infatti rifiutato ogni ipotesi di mediazione che non preveda come precondizione l’uscita di scena di Gheddafi, venendo così a supplire in via di fatto ai sottointesi della risoluzione Onu 1973. Il testo approvato alle Nazioni Unite il 17 marzo scorso ha esplicitamente autorizzato l’uso di «ogni misura necessaria a protezione dei civili» della Cirenaica, ma non vi è alcun esplicito riferimento all’uscita di scena di Gheddafi forse perché in quel momento la si diede per scontata.
Così non è stato e anche se un reparto (forse un intero battaglione) dell’esercito di Gheddafi in rotta si sarebbe consegnato ai militari tunisini oltreconfine, la realtà è che i caccia della Nato hanno sempre più difficoltà a trovare gli obiettivi da attaccare, non perché la capacità militare di Gheddafi sia sensibilmente diminuita, ma semplicemente perché i governativi hanno sviluppato una grande abilità nel nascondersi dai bombardamenti. La loro capacità offensiva rimane considerevole e ne sono prova gli aspri combattimenti che continuano a Misurata e all’imbocco della Sirte, a Brega e al Bayda.
Fonti di Washington ipotizzano che Gheddafi stia utilizzando i tunnel del Grande Fiume costruito a cavallo tra anni ’80 e ’90 per portare l’acqua fossile estratta dal deserto nelle città della costa lungo il Golfo della Sirte. Probabile che a minimizzare i danni dei bombardamenti umanitari della Nato sia anche l’assistenza dell’intelligence cinese che starebbe aiutando il Colonnello, ricordando uno schema simile a quanto accadde durante la guerra contro la Yugoslavia di Milosevic (quando bisogna ricordare una bomba Nato finì per colpire l’ambasciata di Pechino a Belgrado).
Sulla stampa israeliana si legge in particolare di forniture made in China che sarebbero arrivate a Tripoli attraverso l’Africa. In effetti si potrebbe trattare di armi di fabbricazioni cinesi, prodotte direttamente in Sudan (per esempio) dove i cinesi hanno avviato ormai da tempo la produzione di armi leggere per le guerre di Omar al-Bashir in Sud Sudan o in Darfur. Non è neppure una novità che alleati africani del regime stiano rifornendo Gheddafi di uomini e mezzi: il Mali avrebbe inviato 4 mila combattenti e altri aiuti sarebbero arrivati dal Congo-Brazzaville secondo The Economist.
La coalizione dei volenterosi è sempre tanto più a rischio di sfaldamento quanto più si accelera sull’opzione militare: l’uso sproporzionato della forza rispetto alla forma della risoluzione 1973 non è più solo sollevato in modo problematico da Lega araba, Unione africana e in particolare Cina, Russia e Brasile, ma anche gli Stati Uniti hanno ormai rinunciato a impiegare i propri piloti sui celi della Libia e inviano i droni.
Proprio la sovraesposizione occidentale sta facendo affiorare sospetti sul possibile coinvolgimento di alcuni servizi occidentali nell’architettare un colpo di Stato contro Gheddafi ben prima degli avvenimenti iniziati il 17 febbraio scorso: sarebbero coinvolti i servizi inglesi, ma il settimanale egiziano Al Ahram ricorda anche dei milioni spesi dai servizi segreti svizzeri per indebolire il regime dopo la crisi politico-diplomatica che oppose Libia e Confederazione elvetica nel 2009. La rivolta nel febbraio 2011 è iniziata con tutta probabilità per dinamiche slegate da influenze troppo dirette dell’Occidente, ma chi coltivava già piani simili non ha esitato a cavalcare gli avvenimenti.
L’Italia, verrebbe da dire suo malgrado o meglio per sua incapacità politico-strategica, è finita per trovarsi con i falchi francesi e inglesi. È vero che il nostro ministro della Difesa La Russa dopo l’enfasi con la quale aveva annunciato, quasi reclamato, la partecipazione dell’Italia alla nuova impresa di Libia si è speso in cavillosi distinguo per sottolineare che i caccia italiani non bombardano, ma disturbano i radar nemici. Dopo la decisione di mandare i nostri addestratori a Benghasi insieme a quelli francesi e inglesi, è stato ancora La Russa a puntualizzare che i militari italiani «non hanno niente a che vedere con i consiglieri», ma sono «semplicemente istruttori militari, cioè persone che danno nozioni di come un soldato deve muoversi e deve usare gli strumenti che sono a sua disposizione». Su chi poi debba fornire questi «strumenti» che normalmente si chiamano armi non c’è dubbio che in un modo o nell’altro arriveranno da paesi europei e Stati Uniti. Stasera poi il governo italiano ha confermato tutte le difficoltà interne nell’avere una linea unitaria: Berlusconi ha detto di sì alle richieste di Obama di unirsi ai bombardamenti ma la Lega si è disocciata: «bombardare non se ne parla» dice Roberto Calderoli. Comunque, considerando il numero crescente dei morti, a prescindere dallo schieramento, Gheddafi ha sicuramente buon gioco a far passare l’attacco che i media occidentali continuano a presentare come giusto e in favore dei ribelli come un attacco invece contro tutti i libici e non tanto contro il loro capo.
In cambio del sostegno diplomatico, dei bombardamenti e ora degli istruttori militari il capo del Cnt in visita nei giorni scorsi a Roma ha promesso al governo italiano l’impegno della futura Libia libera a rispettare gli impegni sottoscritti nel (o a latere del) Trattato di amicizia e cooperazione del 2008: in altre parole si tratta di garantire le concessioni petrolifere italiane e l’impegno nel contrasto dell’immigrazione clandestina a riprova di quali siano oggi come allora i veri interessi ad animare l’amicizia italiana al di là delle scuse dovute per i massacri compiuti durante il nostro dominio coloniale in Libia.
L’Italia che sembrava candidarsi come possibile interlocutore privilegiato degli anti-governativi recuperando l’inconsistenza iniziale della sua politica estera, sembra essere stata di nuovo scavalcata dai francesi con l’annuncio di alcuni giorni fa stando al quale Nicolas Sarkozy ha accettato di andare a Benghasi su invito del Cnt. Berlusconi sarà il prossimo, inseguendo i cugini francesi o riuscirà finalmente a dare all’Italia una propria linea politica e di azione?
Finché le armi ruberanno la scena alla diplomazia, sarà decisiva la battaglia che si sta combattendo da giorni per l’accesso alla provincia della Sirte, a Brega e al Beyda. Non si tratta solo di una importante zona strategica per il petrolio, ma soprattutto perché lì inizia la Tripolitania e l’accesso a quella regione che fino ad ora ha dimostrato di essere il cuore del sostegno al regime.