Giulio Tremonti continua la sua personale guerra contro i derivati finanziari. «Il mercato non è il demonio, ma il mercato ha trovato il modo di manifestarsi in alcune forme demoniache come la finanza deviata, la finanza derivata», ha detto il ministro dell’Economia ieri alla presentazione del volume di Andrea Riccardi su Papa Giovanni Paolo II alla Fondazione Cariplo a Milano. Eppure, qualcosa non torna. Sì, perché questi strumenti sono stati utilizzati a più riprese dal Governo italiano negli ultimi tredici anni.
Il Tesoro italiano, dal 1998 al 2008, ultima data disponibile, ha guadagnato oltre 8 miliardi di euro coi derivati. Il ministero oggi guidato da Giulio Tremonti ha operato per oltre un decennio con la finanza creativa. In realtà buona parte delle operazioni sono state iniziate dal governo di Romano Prodi, intorno alla metà del 1996. Cross-currency swap e interest rate swap gli strumenti preferiti, utilizzati abitualmente dagli hedge fund. L’Italia non è certo la sola ad aver negoziato derivati – quasi tutti gli Stati lo fanno – ma è fra le nazioni che hanno ottenuto più profitti.
I derivati sono un arma a doppio taglio. E l’Italia lo sa bene. Dai calcoli di Eurostat, che ha rimesso gli occhi sulle operazioni sul debito italiano fra anni Novanta e Duemila, emerge un quadro profittevole per il Tesoro. Nel 1998 ha guadagnato l’equivalente di 3 miliardi di euro. Meno bene è andata negli anni successivi. Fra il 1999 e il 2001 le entrate provenienti da derivati creditizi sono state pari a 1,048 miliardi di euro. Nel 2002 la riscossa, con 1,924 miliardi di ricavi. Andamento minore per 2003 e 2004, quando l’Italia ha guadagnato rispettivamente 705 e 929 milioni di euro. L’ultimo anno d’oro per gli incassi è stato il 2005, con 1,016 miliardi di euro.
Nel 2006 la prima contrazione, solo 163 milioni. Dopo, il declino. Complice la crisi finanziaria internazionale, che ha portato fluttuazioni valutarie del tutto inattese dal ministero dell’Economia e dai suoi advisor (Barclays, Citigroup e JPMorgan), il 2007 si è chiuso con una perdita di 337 milioni di euro. Risultato ancora più negativo per l’anno successivo, meno 392 milioni. Per l’ultimo biennio non esistono ancora dati certificati da Eurostat, ma l’istituzione lussemburghese rilascerà nel prossimo maggio l’ultimo rapporto sulle transazioni swap effettuate nell’Eurozona. Sarà quindi il momento per verificare in che modo il Tesoro ha negoziato derivati negli ultimi due anni. Non è escluso che, dati gli squilibri valutari avvenuti, possano esserci altre perdite.
Ma cosa è stato utilizzato da Via XX Settembre? Cross-currency swap e interest rate swap sono i due prodotti finanziari utilizzati dal ministero dell’Economia per ridurre l’incidenza degli interessi sul debito pubblico. I primi sono contratti che prevedono lo scambio di flussi di cassa, in questo caso capitale e interessi, in due valute differenti, ma a un tasso di cambio predefinito. L’obiettivo primario è quello di proteggersi dal rischio di cambio, ma utilizzando l’arbitraggio si può lucrare nella stessa maniera degli hedge fund. Diverso il discorso per gli interest rate swap. Con questi strumenti si effettuano transazioni di crediti e debiti applicando due differenti tassi d’interesse allo stesso capitale. La durata del contratto è prefissata e sfrutta le variabili dei tassi d’interesse per procrastinare i debiti. Anche in questo caso si tratta di pratiche tipiche dei fondi hedge, che in base alle aspettative sui tassi d’interesse si posizionano long (rialzisti) o short (ribassisti).
Le operazioni su valute e interessi sono immuni alle correnti politiche. Sia il centrosinistra sia il centrodestra hanno operato in derivati. Storica è stata la transazione del 1996, condotta da JPMorgan, che ha permesso al Tesoro (allora c’era Carlo Azeglio Ciampi) di abbassare l’asticella del debito, solo procrastinando il pagamento degli interessi. A Palazzo Chigi c’era Romano Prodi e in tal modo riuscimmo a migliorare i nostri conti, fattore che permise un più agevole rientro nei parametri di Maastricht. Gli swap sono continuati anche sotto i dicasteri guidati da Vincenzo Visco, Giuliano Amato e Tommaso Padoa-Schioppa poi. Il piacere della scommessa sulla finanza derivata è bipartisan, ma c’è un’eccezione. È particolare infatti la posizione assunta da Domenico Siniscalco. Nel 2004, quando era l’inquilino di Via XX Settembre, rifiutò degli swap che gli erano stati proposti da alcuni degli storici advisor del Tesoro, Citigroup e Goldman Sachs. Peccato che le negoziazioni con le banche d’investimento ripresero una volta che Siniscalco si dimise.
Oltre ai derivati c’è di più. Le cartolarizzazioni sono uno dei metodi più amati dal Tesoro per generare entrate. Nello specifico, dal 1999 al 2005, ultima data utile per queste operazioni, oltre 39 miliardi di euro sono stati ricavati da cessione di immobili, crediti dell’Inps, swap sulle entrate previste dei giochi pubblici. In tal modo è stato possibile ridurre di oltre 27 miliardi di euro il debito pubblico italiano. Pari a 6,59 miliardi di euro è stata invece la contrazione del deficit negli anni di attivazione delle cartolarizzazioni. Dalla Scip alla Scic research, si tratta però di transazioni che sono entrate nel mirino di Eurostat e Corte dei Conti. Se dal 2005 l’istituzione europea ha considerato «inaccettabili» le operazioni di questo genere, la giustizia contabile ha guardato al ruolo di Maria Cannata, direttore del Debito pubblico. Per lei e una sua collaboratrice, Tiziana Mazzarocchi, la Corte dei conti ha chiesto la restituzione di 300 milioni di euro per via di una discrepanza valoriale di alcuni immobili cartolarizzati in Scip2, operazione datata 2005. Alla Cannata è stata contestata la «mancata vigilanza» sulle operazioni che poi hanno generato una perdita operativa di oltre 1,7 miliardi di euro. Meglio pensare agli oltre 8 miliardi guadagnati con i derivati valutari. Con buona pace degli esorcisti di tremontiana citazione.