Storia MinimaUn’Europa piena di euroscettici

Un’Europa piena di euroscettici

Il fatto che rappresentanti autorevoli del governo italiano – Silvio Berlusconi in testa – si chiedano se abbia senso o meno restare in Europa non è da considerarsi un esercizio di scuola o una presa di posizione retorica.
Da un certo punto di vista la lamentela è comprensibile. Che cosa il governo italiano ha guadagnato dall’Europa in queste tempo breve degli ultimi mesi? Ben poco. Non ha guadagnato visibilità, autorevolezza, peso politico. Siamo in caduta libera e come la minaccia di dimissioni in un momento di trattativa nervosa dentro un qualsiasi consiglio d’amministrazione, la possibilità ventilata di uscire dalla Ue serve anche a misurare la nostra indispensabilità. Vedremo come finirà. Ma se anche si assistesse a un recupero di peso specifico da parte dell’Italia nella UE, la natura della crisi e la sua profondità non cambierebbero di molto.

Infatti. Una volta abbandonato il campo delle considerazioni di bottega, resta comunque il problema della crisi dell’Europa. Una crisi che c’è per davvero, che non dipende dal governo italiano ma che contemporaneamente dipende da due fattori essenziali, uno di carattere congiunturale il secondo di carattere strutturale.
Consideriamo il primo.
La crisi dell’Europa e della passione per l’Europa non è iniziata nelle ultime settimane di fronte alla vicenda mediterranea, alle insorgenze nordafricane e all’incapacità dell’Europa a farvi fronte. E’ iniziata in maniera irreversibile nel maggio 2005, quando si ha il primo “no” all’ipotesi di trattato europeo bocciato da Belgio, Francia e Olanda, tre paesi costituenti dell’idea di Europa fin dagli anni ’50. Lo stesso esito si ripete tre anni dopo (nel giugno 2008) in Irlanda.

Al di là della retorica sull’Europa condita in tutte le salse – dalla missione cristiana, all’evocazione dell’Europa dei popoli, contrapposta a quella dei governi – manca la volontà di fare i conti con la realtà. E la realtà è che c’è un punto sostanziale che impedisce all’Europa di decollare. Questo punto è il passaggio da una condizione di rendita a una di utilità.
Per lungo tempo l’Europa è stata una chance di fuga rispetto ai propri disagi nazionali. Da una parte consentiva di sottrarsi al proprio governo centrale e di aggirare talora dei vincoli percepiti come troppo rigidi. Funzionava da escamotage per rimettere in discussione la struttura della propria realtà di Stato nazionale di appartenenza. Oppure, dall’altra, serviva per avere la sensazione di fuoriuscire da una precedente condizione di “servaggio” e agganciarsi a un mondo in sviluppo. La prima di queste due diverse dinamiche ha riguardato i cosiddetti movimenti indipendentistici o le destre politiche radicali. L’Europa era una dimensione sufficientemente fumosa e mitologica, per non configurarsi come struttura politica concreta. In altre parole equivaleva a un “antistato”.

Europa era un’ipotetica – comunque lontana – e perciò non preoccupante – possibilità che consentiva di dire che il proprio Stato non funzionava.
La seconda, invece, riguarda i molti associati dopo l’89. Talora sponsorizzati come area di influenza regionale di stati membri (così è stato per la Croazia) oppure facendo valere la loro funzione di marche di confine con l’ “altro Impero” e dunque acquisire possibilità finanziarie, godere di investimenti, di prestiti. Europa in questo caso non corrispondeva a un mito politico, ma era una possibilità per dare prospettiva alla propria società nazionale altrimenti al collasso. Così è stato per i paesi dell’ “ex impero sovietico”. L’Europa in breve era un modo per trovare una propria funzione specifica, e dunque neo-nazionalista, dentro uno scenario che non rispondeva ad alcun criterio generale e che soprattutto non pensava in termini “continentali”.
La crisi di carattere congiunturale – anche se di lungo periodo – ha la sua matrice in questa questione.

Ora consideriamo invece il dato strutturale. Questo dato non riguarda solo la realtà della società europea ma la funzione che l’Europa si vuol dare. La missione in cui riconosce la sua identità. La questione richiama l’origine stessa del mito dell’Europa così come esce dalla Seconda guerra mondiale, quando inizia a porsi l’idea di una realtà politica continentale che abbia un peso e un ruolo. E il profilo più che i padri costituenti dell’Europa (De Gasperi, Schumann, Adenauer) lo pone un grande sconfitto politico della Seconda guerra mondiale, nonostante il lustro di tenace e fermo combattente che si è guadagnato nel corso dell’intero conflitto: Winston Churchill.
Il 19 settembre 1946 Churchill, ormai un uomo politico “mandato in pensione” nel suo paese, tiene una lezione all’Università di Zurigo sull’idea di Europa. In quel testo Churchill delinea i principi e ancor di più la visione geografica dell’idea di Europa che è propria dei padri fondatori dell’Europa (De Gasperi, Schuman, Adenauer) e che si conferma come il fulcro su cui si tiene il discorso europeo ed europeista di questo lungo sessantennio. Un profilo in cui l’interlocutore è l’altra metà dell’Europa, ciò che c’è aldilà dell’Elba. L’Europa di Churchill è l’Europa della guerra fredda (e del resto allora non poteva essere che così). Il problema è che questa visione è rimasta ancora oggi la visione dell’idea di Europa.

E tuttavia la questione della costruzione dell’Europa era già allora per Chiurchill non è un dato unanimistico, ma un dato che nasceva dalla centralità e dalla solidità di un nucleo. Nel passaggio centrale di quel discorso Chiurchill diceva tra l’altro: “Vi lancio ora una proposta che forse vi sorprenderà. Il primo passo verso la costituzione della famiglia europea deve essere un’unione tra la Francia e la Germania. Solo in tal modo la Francia potrà riprendere il suo ruolo di guida dell’Europa. Non si può immaginare una rinascita dell’Europa senza una Francia spiritualmente grande e senza una Germania spiritualmente grande”.
Il nodo dell’Europa politica è ancora lì. Può esserlo non rispetto ai partner statali e dunque essere più grande dal binomio Francia-Germania. Ma è un fatto che quel binomio e la sua centralità voleva dire che l’Europa non avrebbe avuto futuro se non a patto di stabilire un centro dell’Europa, non solo geografico, ma anche politico. Dove dunque doveva essere contemplata l’ipotesi di un sistema centro-periferia; dove si davano responsabilità e pesi specifici differenziati, cui corrispondevano anche decisioni a maggioranza.

Come sappiamo quell’auspicio non si è tradotto in criterio politico ed è rimasto intrappolato in una sorta di ibrido tra un sistema rappresentativo e decisionale del tutto unanimistico e una prassi politica che talvolta si propone con tavoli separati e privilegiati. Non è la logica dell’esclusione. E’ la conseguenza del fatto di non avere una visione del ruolo politico. Una condizione che oggi rischia, sull’onda delle passioni nazionalistiche e dell’orgoglio di sé, di produrre un impasse lacerante, prima ancora che inutile o dannosa. Ma che non nasce oggi e che denuncia un deficit politico originario.