In aggiunta al reattore n.1, anche le barre di combustibile delle unità 2 e 3 della centrale di Fukushima hanno accusato la parziale fusione per effetto dei danni seguiti al sisma dell’11 marzo scorso. È la Tepco, gestore dell’impianto nucleare, ad annunciarlo e, aggiornando la precedente valutazione secondo cui solo il reattore n.1 era interessato «da criticità», estende adesso il danneggiamento a tutti e tre i reattori con combustibile attivo al momento della catastrofe.
A metà maggio, la società elettrica giapponese aveva spiegato che, sulla base dei dati raccolti, il reattore n.1, a causa dei sistemi di raffreddamento fuori uso, aveva registrato «la fusione della maggior parte del combustibile al fondo del recipiente di contenimento». Lo scenario aveva sollevato timori, ora confermati, che anche i numeri 2 e 3 avessero subito la stessa sorte. Un bilancio drammatico e un pericolo nucleare ampiamente previsto che si aggiunge alla notizia della radioattività nella catena alimentare, con l’arrivo sulle tavole dei giapponesi: i campioni di alghe prelevati nell’area di Fukushima sono altamente contaminati.
Dopo due mesi dal terremoto che ha devastato il Giappone, l’associazione ambientalista Greenpeace ha monitorato le acque al largo della centrale nucleare e i risultati non sono rassicuranti. Il rischio è che attraverso le alghe, alimento molto consumato dalla popolazione locale, le sostanze radioattive disperse nelle acque largo della centrale arrivino fino alla popolazione. Da fine aprile sono stati prelevati ventidue campioni di alghe raccolte a nord e a sud della centrale di Fukushima-Daiichi e fino a 65 km al largo della costa. I livelli di contaminazione registrati raggiungono valori di oltre 10.000 Bequerel per chilogrammo (Bq/kg), oltre cinque volte i limiti ufficiali di sicurezza.
«I nostri risultati indicano che c’è un rischio elevato che le alghe dell’area siano contaminate – commenta Giorgia Monti di Greenpeace Italia, a bordo della Rainbow Warrior durante i campionamenti -. Come mostrano i campioni di sedimenti marini analizzati dalla Tepco (la società elettrica proprietaria della centrale) e come confermano le nostre analisi preliminari, la radioattività si sta accumulando negli ecosistemi marini che forniscono un quarto del fabbisogno alimentare del popolo giapponese». Eppure le autorità giapponesi non stanno facendo nulla per proteggere la salute pubblica mentre le comunità costiere cercano di tornare alla normalità dopo la tragedia dello tsunami dell’11 marzo, e per loro la contaminazione di fauna e flora nelle reti alimentari marine è un’ulteriore tragedia.
Per pura precauzione il Governo di Tokio dovrebbe imporre il posticipo dell’apertura della stagione di raccolta delle alghe per condurre studi approfonditi e per valutare i rischi sanitari. Ma il Governo continua a minimizzare anche dopo la conferma del pericolo nucleare: ad aprile l’Agenzia per la sicurezza nucleare del Giappone ha alzato da 5 a 7 il livello di gravità della crisi nell’impianto di Fukushima Daiichi, che è ora lo stesso di quello del disastro di Chernobyl del 1986.
Greenpeace sta conducendo ulteriori analisi su campioni di pesci, acqua marina e alghe raccolti a oltre 12 miglia dalla costa dalla nave Rainbow Warrior, perchè nonostante le ripetute richieste inoltrate al governo giapponese, alla nave di Greenpeace non sono stati concessi i permessi per condurre ricerche nelle acque territoriali giapponesi. Ad ogni modo dopo il disastro di Fukushima rimane una domanda: il nucleare è destinato a morire? Secondo il report 2010-2011 del Worldwatch Institute la risposta è ampiamente prevedibile. Sì, ma già dalla fine degli anni ottanta quando l’energia atomica ha iniziato la propria parabola discendente e nel 1990 per la prima volta il numero di reattori arrestati nel mondo ha superato il numero di avviamenti. Stesso trend in Europa quando nel 1990 si è raggiunto il picco di stop alle centrali e nel successivo decennio a fronte di 29 spegnimenti si sono registrati solo due aperture.
Anche dai dati più recenti confermano la lenta agonia dell’atomo: oggi risultano in funzione nel mondo un totale di 437 reattori nucleari per 30 Paesi, otto in meno rispetto al massimo storico del 2002 e l’età media non incoraggia certo ulteriori investimenti, 26 anni.
Secondo l’istituto di ricerca americano, che ha analizzato i dati dell’Iaea, nello scorso aprile erano 64 i reattori considerati «in costruzione», un numero decisamente più basso rispetto ai 120 nel 1987, e soprattutto 12 sono considerati in costruzione da più di 20 anni, mentre 35 impianti non hanno una data di inizio ufficialmente pianificata.