Il messaggio sembra ormai fin troppo chiaro: o te ne vai in fretta o ti eliminiamo. Per l’Occidente e buona parte del mondo arabo che dall’inizio della crisi libica sta avversando Muammar Gheddafi, la sua uccisione pare sempre più obbligata. Arroccato nella sua Tripoli, attorniato di pochi, ma fidatissimi uomini, “la guida” come nell’ultimo decennio amava farsi chiamare, non pare volersi piegare alla soluzione di un esilio, nonostante le offerte siano continuate anche settimana scorsa, sia con il pubblico tentativo russo sia con quello più nascosto dei servizi di alcuni paesi occidentali.
Come è nel suo stile Gheddafi sembra trattare. Un punto di mediazione è parso vicino. Ecco l’ipotesi: il Colonnello e il suo clan lasciano la Libia con parte della cassa libica e vengono ospitati da qualche paese africano. La tentazione è forte, ma il rais non è un semplice dittatore e non si rassegna alla fine di Ben Alì. Si è sempre considerato un ideologo del mondo arabo, il propugnatore della terza via tra capitalismo e comunismo, l’inventore dello stato delle masse, il realizzatore della democrazia vera, quella diretta, costituita dai suoi comitati popolari. È il re dei re dell’Africa, il teorizzatore dell’unità africana. Ha combattuto contro gli Stati Uniti, e non solo non ne è uscito sconfitto -si ricordino i raid del 1986-, ma li ha costretti a parziali compensazioni. Ha obbligato l’Italia ad una lunga ed estenuante trattativa alla fine della quale il popolo italiano ha chiesto scusa per il colonialismo. Gheddafi è una ideologia continua e l’ideologia non si dimette, non si sconfigge e non batte ritirata.
In qualunque paese fosse ospitato Gheddafi sarebbe comunque un problema. Finirebbe per destabilizzarlo. Certo non si rassegnerebbe ad una vita di silenzi, braccato dalla corte internazionale penale e assetato di vendetta, perlomeno mediatica. Sa troppe cose, ha fatto affari con tutti. Ha attraversato un epoca: da Nixon a Obama. Per questo l’opzione dell’esilio si sta riducendo sempre di più, lasciando come unica possibilità quella dell’eliminazione violenta del Colonnello. Per la nostra cinica politica estera sarebbe meglio che fosse qualcuno del suo entourage a farlo. Mercoledì scorso una breve notizia passata sottotraccia raccontava di un attentato (andato a vuoto) di uno dei suoi vecchi compagni, il generale Abu Bakr Younes. Se era questa la soluzione vicina a cui auspicavano i governi europei e gli Usa, il problema non è risolto.
Su queste pagine, ormai un paio di mesi fa, si era scritto che il colpo di stato interno sarebbe stata la soluzione più indolore. Non quella più giusta, neppure quella definitiva per la pacificazione del paese (che richiederà un impegno più complesso e duraturo), ma quella che avrebbe comportato meno strascichi nelle future relazioni con i paesi occidentali e la più rapida per la speranza di una nuova Libia. L’ormai lunga azione militare della Nato rischia di creare nel paese sentimenti avversi a quelli sperati. Ayman Al Zawahri, il numero due (ora uno?) di Al Qaeda, ha diffuso un audio-messaggio piuttosto ambiguo in cui da una parte invita i cittadini della Libia ad abbattere Gheddafi dall’altra a prendere le armi per combattere contro la coalizione occidentale.
Da parte occidentale dopo l’eliminazione di Osama il monito per Gheddafi suona terribile. Gli è rimasto ancora il fattore tempo: il Colonnello spera che prima o poi gli alleati della Nato si stanchino. Le operazioni militari costano e le opinioni pubbliche non amano sentir parlare di guerra. Russia e Cina mal tollerano la presenza militare occidentale in Medio Oriente e Nord Africa. Gheddafi punta a resistere, ma la situazione a Tripoli è sempre più difficile. Benzina e cibo sono razionate. Ora i controlli e gli attacchi ai porti da parte della Nato mirano a bloccare le forniture del raìs, non soltanto il suo apparato bellico. La speranza rimane quella di un colpo di stato o di una rivolta di successo.