Champions, per Ferguson è tempo di vendetta

Champions, per Ferguson è tempo di vendetta

Due anni dopo, perché le vendette vanno servite fredde e quindi il tempo di cedere il testimone 2010 all’Inter targata José Mourinho per poi ripresentarsi al solo di scopo di ribadire che una delle due è la squadra più forte in Europa. Da Roma 2009 a Londra 2011, dall’Olimpico dove Pep Guardiola riuscì a dedicare la sua Champions League anche a Paolo Maldini, fresco di ritiro, allo stadio di Wembley dove la storia lascia parvenze di sé, nonostante l’impianto completamente nuovo e un campo che non è certamente il miglior giardino d’Inghilterra.

Manchester United Vs Barcellona è la finale migliore che uno sportivo avrebbe dovuto mettere in conto dall’inizio. Gli uomini di Sir Alex Ferguson hanno nuovamente monopolizzato la Premier League, dopo il contentino lasciato al Chelsea di Carlo Ancelotti nella scorsa stagione, e sono arrivati imbattuti all’appuntamento. I catalani, dal canto loro, muovono palla così bene da fare innervosire gli avversari e scardinare la suscettibilità del filosofo di Setubal: hanno vinto la Liga, rifilando nel catino del Camp Nou cinque gol al Real Madrid, poi l’ultimo scoglio aggirato in semifinale di coppa. Con Guardiola che senza scomporsi ha gustato il sapore della rivincita sul rivale portoghese e stasera potrebbe diventare il tecnico più giovane ad alzare per due volte la Champions. Beffando proprio Mou.

A Wembley non ci sarà Joseph Blatter: il presidente della Fifa ha paura di presentarsi, preso com’è a difendere il suo giocattolo accusato di corruzione. Ma stasera l’importante è che vada in scena il calcio, quello giocato e quello ragionato.

Il Barcellona, ad esempio, ha costruito una vera comunità attorno ai suoi colori: negli ultimi nove anni, il numero dei soci è aumentato di 70mila persone, superando quota 173mila. Un’impennata dal 40 per cento. E stiamo parlando di una società che a giugno presentava debiti netti per 442 milioni di euro. Numeri che hanno spinto il nuovo presidente Sandro Rosell a denunciare il predecessore Joan Laporta. Eppure, secondo la rivista Forbes, il valore del Barcellona nel 2010 si aggirava sui 752 milioni di euro. 

A Manchester non stanno messi meglio. Un anno fa la società ha emesso dei bond, con scadenza a febbraio 2017, pari a 504 milioni di sterline (581 milioni di euro) per coprire un debito salito a 509 milioni. La gestione è in mano alla famiglia americana dei Glazer, che non gode di particolare feeling tra i caldi tifosi dello United: in segno di protesta verso la dirigenza, spesso si presentano all’Old Trafford con i vecchi colori del club, il giallo e il verde. Eppure, i Red Devils in casa possono contare in ogni partita sul tutto esaurito: un’indagine della società di consulenza Deloitte indica un’affluenza media del 99,3% sui 76.000 posti a sedere, per entrate pari a 122 milioni di euro, il 35% del bilancio totale. Roba da fantascienza per il calcio italiano. 

Fatti i dovuti calcoli di cui sopra, aveva ragione Cuba Gooding Junior quando nel film “Jerry Maguire” sintetizzata un’essenza dello sport professionistico urlando alla cornetta «Show me the money!», il lato romantico persiste.

Ferguson ha l’occasione di alzare il 36° titolo da manager dello United. Il rosso Alex, l’accento scozzese che lascia intendere che quando si arrabbia sono guai per tutti (in spogliatoio lo soprannominarono “hair dryer”, asciuga capelli per la foga con la quale si rivolge all’uomo che lo ha tradito con una prestazione non degna da Manchester). Sceso nella Midlands da Aberdeen, l’Atene delle Highlands secondo gli Scots, per costruire una dinastia a furia di vittorie: 12 campionati, 5 FA Cup, 4 League Cup, 9 Community Shield, 2 Champions League, 1 Coppa delle Coppe, una Super Coppa europea, una Intercontinentale e un Mondiale per club. E decine di talenti lanciati nel firmamento, alcuni dei quali saranno in campo stasera: Ryan Giggs che a 37 anni corre ancora come un ragazzino (e si permette di finire in storie di gossip come un Cristiano Ronaldo qualunque), Wayne Rooney che voleva andarsene ed è rimasto e somiglierà pure ad un barilotto, ma lotta come un forsennato, Antonio Valencia che incrocia il passo e fugge via lungo la fascia, il Chicharito Hernandez al quale Ferguson aveva fatto firmare il contratto prima che il mondo si accorgesse di lui ai Mondiali sudafricani con il Messico.

Ovvio, dall’altra parte ci sono Messi, Xavi e Iniesta: già loro bastano e avanzano. Hanno la colla sugli scarpini, ma non impiastricciata, altrimenti la palla resterebbe attaccata e non scivolerebbe via sul manto d’erba. Gli ultimi due sono tra gli artisti che hanno aiutato la Spagna a salire sul gradino più alto del mondo, detto tutto. E poi in difesa il longilineo ed elegante Gerard Piqué e il capitano Carles Puyol, orgogliosamente sangre y oro. 

Si va nell’arena, è tempo di vendetta. Show me the Champions.