«Che ci fanno Eni, Enel, Finmeccanica e Poste Italiane in Confindustria?». Se lo chiede Mario Carraro, presidente della società che porta il suo cognome ed ex uomo guida degli industriali veneti. In un colloquio con Linkiesta dopo l’ultima assemblea di Emma Marcegaglia da presidente di viale dell’Astronomia, l’imprenditore padovano ammette: «i continui appelli alla politica per fare le riforme hanno reso l’associazione autoreferenziale».
Oggi Emma Marcegaglia ha affermato: «Confindustria non deve più servire per ottenere sussidi o incentivi che drogano il mercato. Confindustria deve tenere la guardia alta sui temi generali delle grandi riforme». Peccato che fino a due mesi fa chiedeva incentivi al Governo. Cosa è cambiato?
«Il cambiamento che ha causato il contraccolpo più grande è stata l’uscita di Fiat, la più grande impresa italiana che non ha più ritenuto Confindustria strategica per i suoi interessi. L’altro grande problema è l’assenza di un po’ di sana autocritica: il sistema confindustriale non ha ottenuto risultati in termini di rappresentanza per spingere nella direzione dello sviluppo. C’è stato un momento in cui si diceva “piccolo è bello” e si proteggeva tutti indistintamente, oggi non è più così».
Gli industriali hanno definitivamente rotto il feeling con Berlusconi? Oggi la Marcegaglia ha attaccato la politica «alle prese con fratture e problemi di leadership personali anteposti al benessere del paese», osservando amaramente che «l’italia ha già vissuto il suo decennio perduto»
«Putroppo queste critiche arrivano in un momento in cui la controparte è debole. Perché alzare la voce solo ora e non sei anni fa? Negli ultimi quindici anni sono entrati in Confindustria realtà che hanno profondamente condizionato il rapporto dell’associazione con il Governo, come Eni, Enel e Finmeccanica. Condizionamenti che hanno influito negativamente su quanti rischiano il proprio capitale privato».
Secondo lei la Marcegaglia è stata più favorevole a sedersi al tavolo con il Governo rispetto al favorire il naturale corso del mercato, come ha dichiarato lei stessa nel caso dell’opa di Lactalis su Parmalat?
«Ritengo sia giusto dire che il mercato deve fare il suo corso, ma questo principio allora deve valere sempre, anche se ci fosse un tentativo di prendere Fincantieri. O il sistema è sempre libero o è sempre condizionato. Devo dire che oggi, inutile negarlo, la maggioranza di noi soffre ancora degli effetti della crisi, che deve per questo diventare un’occasione per rivedere il nostro sistema di rappresentanza confindustriale e snellirlo».
Come ha scritto il Corriere qualche giorno fa, il settore dei servizi è ancora lontanissimo da quel 30% che, secondo i calcoli, dovrebbe essere il peso nel fatturato dell’associazione. A cosa serve Confindustria se è come il canone Rai?
«Oggi si chiama Confindustria una lobby dove i soci che appartengono ai servizi sono invadenti e antagonisti rispetto ad una parte degli iscritti, storicamente imprese manifatturiere. Favorire la competitività avendo nel proprio direttivo rappresentanti di società che operano in settori praticamente monopolistici è un compito piuttosto difficile. Io ho una piccola industria in Germania, e l’affiliazione alla Confindustria tedesca mi costa un quinto rispetto a quella italiana. E qui veniamo al secondo problema: le strutture periferiche inutili, che si chiamano tutte Confindustria tranne a Treviso, dove hanno orgogliosamente mantenuto il nome “Unindustria”, e sulla cui utilità non posso che dare un giudizio negativo.
Ad esempio?
«Un esempio pratico sono i corsi di formazione sulla sicurezza o sul controllo qualità, troppo superficiali, che si fanno senza tenere conto della specificità delle aziende».
Quindi su quali elementi bisogna puntare con decisione per riformare il sistema confindustriale?
«L’attenzione alla responsabilizzazione della politica ci ha posto negli anni in una condizione autoreferenziale in cui ci si è cullati nell’idea che è sempre colpa della politica. Tuttavia, i grandi indirizzi verso la ricerca e l’innovazione possono essere delineati a prescindere dalla politica, ma per farlo ci vuole il coraggio di spingere sull’interazione con le università e sullo snellimento della fiscalità».
Quali sono le categorie che hanno avuto più rappresentanza nella Confindustria di Marcegaglia e quali nella Confindustria di Montezemolo?
«Credo che la Marcegaglia meriti tutto sommato un plauso per l’impegno profuso, però manca un rinnovamento più palese dal punto di vista organizzativo. La nostra Confindustria è molto più mediatica delle altre associazioni di categoria simili, ma contemporaneamente abbiamo ancora un sistema industriale che ha delle oggettive difficoltà. Basti pensare al Sud, dove Confindustria è nulla, ma questo è forse un problema più politico».
Mentre dal punto di vista dell’associazione qual è la questione centrale in termini di “organizzazione”?
«Confindustria ha sempre fatto grandi viaggi all’estero, ma che senso ha andare in Cina con 400 imprenditori di Pmi? Quando Sarkozy è andato in Cina si è portato 70 industriali di settori mirati, non un carrozzone. Cosa vuole che facciano le nostre Pmi da sole in Cina? Per le Pmi tedesche è stato molto più facile sbarcare a Pechino, perché in Cina sono saldamente presenti Bosch, Bmw e Volkswagen, che possono quindi fare da traino».
Anche i critici sono concordi nel dare merito alla Marcegaglia della creazione di Reti imprese. Cosa ne pensa?
«Sono d’accordo nel caso specifico, ma io farei una riflessione su tutto l’insieme. I nostri piccoli industriali non si sentono rappresentati perché l’associazione è oggi ancorata a grandi sistemi come le Poste, i carburanti, l’energia. Oggi siamo passati dalla Confindustria alla Confimprese».