È stato uno dei segreti industriali meglio protetti durante la gestione di Enrico Bondi. Da dove arriva il latte che Parmalat vende in Italia? Ancora poche settimane fa Antonio Piva, vicepresidente nazionale di Confagricoltura (la lobby dei grandi produttori agricoli), non aveva dubbi: con Calisto Tanzi, il fondatore che ha condotto Parmalat al crac miliardario del 2003, l’azienda acquistava un buon 60% del latte in Italia e il resto all’estero, mentre la gestione dell’amministratore delegato Enrico Bondi «ha ribaltato le proporzioni fra l’Italia, ormai minoritaria e non superiore al 40%, e l’estero». Una convinzione piuttosto diffusa, mai smentita né confermata dall’azienda, che ha indotto politici e commentatori a costruire ragionamenti su un dato non corretto.
In realtà il magazzino di Parmalat racconta un’altra storia. I dati delle forniture relative al 2010, di cuiLinkiesta è venuta a conoscenza, rivelano che il 68% del latte (Uht e microfiltrato) lavorato da Parmalat in Italia arriva dalle stalle italiane. Solo il 32% dall’estero. Il latte fresco, ovviamente, è invece tutto made in Italy. Nel complesso, secondo quanto riferisce Coldiretti, l’organizzazione dei piccoli agricoltori, il gruppo guidato da Bondi ogni anno lavora 8,3 milioni di quintali di latte nei suoi stabilimenti italiani.
Nella filiera lattiero-casearia italiana, mostrano ancora i dati interni dell’azienda, Parmalat è molto più determinante nel Centro-Sud che al Nord. Da un lato, infatti, è vero che le regioni settentrionali sono le principali fornitrici di latte per Collecchio: il 69% del latte che l’azienda compra in Italia arriva da qui. Ma in rapporto alle dimensioni del mercato “padano” del latte (la sola Lombardia dà il 40% della produzione nazionale di latte), l’acquirente Parmalat rappresenta a mala pena il 4,4% del totale delle consegne di latte fatte dagli allevatori settentrionali.
Nel Centro-Sud, dove si produce molto meno latte, il peso di Collecchio cresce in maniera più che proporzionale e il gruppo emiliano risulta acquistare circa il 34% della materia prima prodotta localmente. Dunque è un compratore influente, alle cui decisioni sono appese le sorti di migliaia di piccole aziende. Se dovesse andare in porto l’acquisizione da parte di Lactalis, il nuovo colosso franco-italiano sarebbe in grado di esercitare un’influenza notevole sul mercato degli approvvigionamenti.
Sulla base di questi numeri più che il Nord, dove le alternative non mancano, a temere potrebbe essere soprattutto il Sud. La Confagricoltura teme che Lactalis privilegi le forniture estere, soprattutto dalla Francia, il paese di origine della multinazionale presente in 148 Paesi e proprietaria, in Italia, di Galbani e di altri marchi importanti come Cademartori, Invernizzi e Santa Lucia. Lactalis ha un fatturato globale di 9,4 miliardi di euro, più del doppio della Parmalat.
«In realtà il timore è largamente infondato: il fresco non può viaggiare molto, deve essere confezionato entro 48 ore e quindi gioco-forza devono fare ricorso ai produttori locali», spiega Giorgio Apostoli, responsabile dell’area zootecnia di Coldiretti. Se i francesi vogliono davvero guadagnare con questa operazione, continua Apostoli, «hanno tutto l’interesse a sviluppare per l’export prodotti italiani a valore aggiunto, con il marchio Dop (Denominazione di origine protetta, ndr) che prevede disciplinari molto rigidi, a tutela della tipicità locale, e assicura bei margini industriali».
Il marchio di tutela giuridica automaticamente avvantaggia il produttore locale. Chi trasforma il latte in Parmigiano Reggiano (e così è per la quasi totalità degli allevatori emiliani) riesce a spuntare ricavi più alti, fino al doppio per il latte di qualità elevata (70-80 centesimi al litro contro gli attuali 39 per il latte venduto alle industrie di trasformazione).
Ciò che spaventa, però, è il potere negoziale che la nuova entità franco-italiana arriverebbe ad avere. Insieme, stima la Coldiretti, Parmalat e Lactalis comprano «non meno del 18%» del latte nazionale. Confagricoltura teme che «si arrivi a un monopolio che strozzerebbe i produttori». E uno dei problemi principali della filiera italiana sono i costi di produzione, fra i più alti in Europa.
Secondo le statistiche elaborate da Clal.it, società di consulenza modenese specializzata nel settore lattiero-caseario, in Lombardia il prezzo del latte alla stalla si aggira attualmente attorno a 40 euro al quintale, contro 33,25-33,90 euro della Baviera e 31 euro circa della Francia (regione Rhône-Alpes). «La differenza la fanno i diversi costi di produzione e soprattutto la minore disponibilità di pascoli», spiegano fonti dell’Ismea, l’ente pubblico italiano che offre servizi informativi, assicurativi e finanziari per le imprese agricole.
Sul conto economico incidono la bolletta energetica e soprattutto l’alimentazione per il bestiame. Motivo quest’ultimo per cui al Sud il gap di competitività si amplia (le condizioni climatiche non favoriscono l’abbondanza di foraggio) e i compratori industriali vanno incontro agli allevatori concedendo una piccola compensazione (nell’ordine di qualche centesimo per litro).
Di contro, la redditività delle mucche italiane (misurata come reddito netto prodotto dall’azienda per unità di bovino adulto) è più alta rispetto a quella delle “colleghe” europee. I dati RICA della Commissione europea rivelano che i bovini da latte italiano generano un reddito netto pro-capite di 996 euro contro una media europea di 531 euro. La migliore redditività delle mucche italiane è frutto degli investimenti in selezione e miglioramenti genetici finanziati dallo Stato (60-65 milioni negli anni passati, 55 milioni nel 2011).
Nel tentativo di rendere più efficiente la filiera produttiva, la Parmalat di Bondi sta investendo in un piano, non ancora ufficializzato, che punta a rendere più efficiente l’intera filiera. Si tratta del cosiddetto “progetto Margherita”, che secondo quanto riferisce un manager del gruppo di Collecchio punta ad aiutare «gli allevatori che ci conferiscono il loro latte a ottimizzare la propria struttura dei costi in modo da essere più competitivi in relazione a tutti i fattori di produzione». Non è chiaro come saranno divisi i guadagni di efficienza fra allevatori e la multinazionale emiliana. Ma, a oggi, è l’unico tentativo di politica industriale nel settore del latte, per di più di iniziativa imprenditoriale. Un lascito di Bondi ai posteri.