Il crollo di Lehman Brothers ha ricordato al mondo che nulla è troppo grande per fallire. Il G8 che ha aperto i suoi lavori oggi a Deauville non ha un compito facile. Prima di tutto, deve ridare fiducia a un mondo che ha perso la bussola. Nei giorni più neri del mercato immobiliare statunitense Mohamed El-Erian, numero uno di Pimco, il più grande fondo obbligazionario mondiale, parlò di «New Normal», la nuova normalità. E questa per gli Stati Uniti significa fare i conti con un debito da oltre 14mila miliardi di dollari, il massimo immaginabile dal Congresso. Ma New Normal significa anche che da Deauville gli Usa escono con un impegno preciso di fronte al G8: «Un piano chiaro e credibile di riduzione del debito e deficit».
Gli Stati Uniti stanno vivendo la loro fase economica più dura. Ieri ha colpito un editoriale di James Mackintosh sul Financial Times: «Un fallimento dell’America è più probabile rispetto a quello dell’Indonesia». Quello che può sembrare un mero titolo giornalistico, nasconde in realtà quanto di più concreto sta accadendo. Il debito americano attualmente è di 14.396 miliardi di dollari. Oltre il debt-ceiling, il limite legale fissato dal Congresso, pari a 14.294 miliardi di dollari. La revisione dell’outlook, da stabile a negativo, adottata da Standard & Poor’s poche settimane fa, rimarca proprio il mutamento delle certezze. E l’immobilismo di Camera e Senato sul fronte del debito non fa altro che aumentare le probabilità di una spirale negativa intorno a Washington.
Ma è possibile pensare al crac degli States? L’Economist lo ha fatto nello scorso gennaio. Non è stato solo un esercizio di stile, in quanto il declino, economico e politico, è già iniziato. Senza scomodare Paul Kennedy e il suo monumentale “Ascesa e declino delle grandi potenze”, l’inversione di rotta degli Usa è netta, almeno sotto il profilo economico. Dopo aver superato il Giappone, la Cina si appresta a diventare la prima economia al mondo, sopravanzando l’America, entro il 2020. In un mondo profondamente cambiato, molto più di quanto i suoi abitanti possano immaginare, come quello odierno, un crollo degli Stati Uniti può non essere considerato un Black swan, un cigno nero, un evento talmente imprevedibile da sfuggire a ogni logica. L’America esce da una recessione dura, significativa e dolorosa, con gli stessi squilibri precedenti alla crisi, ma con uno scenario globale completamente differente, in cui «non è più il motore trainante del mondo», come ha ricordato il finanziere George Soros.
Sono proprio gli squilibri a essere lo spauracchio peggiore per gli Usa. Dopo anni di spesa pubblica libertina (vedasi i programmi assistenziali Medicare e Medicaid o la gestione dissennata di Fannie Mae e Freddie Mac, le sorelle dei mutui), per la Casa Bianca è arrivato il momento di fare i conti con i propri creditori. Il debt-ceiling è stato sorpassato e prima di agosto presumibilmente non sarà azzerato, dando così la possibilità di accrescere illimitatamente lo stock di debito. In più, i segnali negativi non riguardano solo i conti pubblici. No, perché la crescita americana ha invertito la rotta. Dopo un quarto trimestre 2010 con un Pil in rialzo del 3,1% su base congiunturale, i primi tre mesi dell’anno hanno visto un incremento dell’1,8% rispetto al trimestre precedente. Lo ha certificato il Bureau of Economic Analysis, sottolineando come il dato registrato sia di molto al di sotto delle attese, che vedevano un’America crescere del 2,2 per cento. Come se non bastasse, fra poco terminerà il Quantitative easing 2 (QE2), il piano di stimolo fiscale promosso dalla Federal Reserve. Con esso, finirà anche la liquidità straordinaria che finora ha fatto galleggiare gli States.
A guardare con attenzione alla situazione statunitense è la Cina. Secondo il segretario americano al Commercio, Gary Locke, «Pechino detiene l’8% del nostro debito». Questo si traduce in 1.152 miliardi di dollari sulle spalle della Cina, che è anche il primo mercato per gli Stati Uniti. Un mole di titoli di Stato che sta preoccupando non poco la Banca centrale di Pechino. Non è un caso che l’acquisto di Credit default swap (Cds) su Washington, i derivati che immunizzano dal crac di uno Stato o di un soggetto economico, siano schizzati nel corso dell’ultimo anno. La società di analisi finanziaria Markit, specializzata proprio in Cds, ha spiegato che i derivati a protezione su Washington riflettono tutta l’incertezza degli investitori nei confronti degli States, considerati non più sicuri come una volta.
C’è qualcosa che l’America deve imparare dalla crisi debitoria dell’eurozona. Prendiamo a esempio la prima nazione a capitolare: la Grecia non è sull’orlo del baratro, vi è in mezzo. Il piano di sostengo finanziario da 110 miliardi di euro, varato un anno fa, non solo non è riuscito nel suo intento di ridare ossigeno a un Paese vicino all’asfissia debitoria. Non è nemmeno nemmeno riuscito a fornire un elemento di forza a una governance europea che è sembrata deficitaria fin dalle prime avvisaglie della crisi subprime. Ora, con le voci di uscita dall’eurozona da parte della Grecia, lo scenario muta. Sono sempre più le voci, come quella del premio Nobel Paul Krugman, che vedono una disgregazione dell’Unione europea entro pochi anni. Difficile pensare il contrario, vedendo l’evoluzione dell’attuale congiuntura economica. Crescita debole, inflazione in ascesa, conti pubblici esplosi, coordinamento delle correzioni di bilancio che arranca: sono questi i punti su cui si deve trovare una soluzione. Ed è bizzarro pensare che le stesse problematiche siano presenti sia in Grecia sia negli Stati Uniti.
La lezione di Lehman Brothers ci ha insegnato ancora una volta che non esiste nulla di troppo grande, troppo interconnesso, troppo importante, per fallire. La lezione della Grecia (ma anche dell’Irlanda e del Portogallo, finora) è che se un soggetto è illiquido, si può salvare. Ma se questo è insolvente, come lo è Atene, l’unica via è contenere il contagio facendolo fallire. Gli Stati Uniti hanno la possibilità di imparare sia da Lehman sia dall’Europa. C’è da sperare che lo faccia.