IL CAIRO – Il presidente Hosni Mubarak è caduto dopo 25 anni di potere, ma la rivoluzione in Egitto è solo all’inizio. La stampa internazionale si è lungamente soffermata sulla rivolta dei giovani di piazza Tharir contro il regime corrotto di Mubarak con l’effetto a volte distorto di appiattire su un modello univoco, quasi mitico, la complessità delle tante anime che hanno animato la protesta e che oggi si trovano a dover dialogare. Il regime di Mubarak è caduto sull’onda popolare di protesta innescata dalla corruzione dilagante e dalle malversazioni di un sistema che negli ultimi anni insieme alla crescita economica ha portato a una sempre maggiore polarizzazione della società e della sperequazione sociale. A fianco di una relativamente piccola borghesia egiziana che a Tharir manifestava per avere libertà e giustizia oltre allo sviluppo economico, la gente comune ha protestato soprattutto per l’aumento del prezzo dei generi di prima necessità e per aver qualche sollievo dalle condizioni di povertà, spesso di estrema povertà, nelle quali è costretta a vivere. All’euforia che segue naturalmente gli anni di censura e repressione con il risveglio della società civile che ha portato a un fiorire di associazioni, movimenti e partiti politici fanno da contrappeso la crisi economica e i problemi di ordine pubblico.
I titoli di apertura de The Egyptian Gazette sono indicativi della situazione di grande incertezza: lo sciopero paralizza il sevizio ferroviario nazionale, la moneta egiziana è sotto pressione internazionale e dozzine di morti e feriti si sono registrati negli scontri fra copti e musulmani. Apparentemente la megalopoli del Cairo continua a vivere nel suo caos ordinato di sempre, ma a un occhio indiscreto si rivelano le tante contraddizioni di chi parlando loda la rivoluzione, ma nota anche che adesso «ognuno fa quel che vuole». Non si tratta solo del fiorire di cantieri edili nel tentativo di aggiungere qualche metro quadro in più alla propria casa approfittando del cambio di regime e della diminuzione dei controlli in una città che ha il primato mondiale della densità di abitanti per metro quadrato, ma si tratta soprattutto di un problema di ordine pubblico e sicurezza.
Sono molti i carcerati fuggiti dalle prigioni, mentre i poliziotti sono stati completamente delegittimati per essere fortemente corrotti e per rappresentare gli aguzzini del regime agli occhi della gente di strada. Restano ancora fresche le memorie penose degli arresti arbitrari, di torture o peggio perpetrate dal regime in nome della pubblica sicurezza e grazie alle leggi di emergenza. Il risentimento popolare verso la polizia è palpabile, tanto che sono i militari del “Consiglio supremo delle forze armate“ (che regge le sorti del paese dalla caduta di Mubarak) a garantire l’ordine nella città dove vige ancora il coprifuoco durante la notte. Sono di giovedì scorso le proteste di Mohamed Omar, membro del direttivo della “Coalizione agenti di polizia” che ha chiesto «protezione» di fronte a chi perseguito come criminale finisce per far perseguire i poliziotti in nome della libertà.
Le celebrazioni del 1° maggio scorso per la festa dei lavoratori sono state indicative del fermento in atto, come delle contraddizioni dopo anni di chiusura. Contro i rappresentati della “Federazione generale dei sindacati egiziani”, parzialmente screditata per le sue connivenze con il passato regime, hanno rivendicato il diritto al pieno riconoscimento i sindacati autonomi della “Federazione indipendente dei sindacati egiziani”. Su alcuni punti entrambi gli schieramenti sembrano convergere nell’intento di rilanciare l’economia nazionale dopo la crisi economica seguita alla rivoluzione che ha portato a una perdita consistente nei flussi di investimenti dall’estero e in quelli dei turisti (che per l’Egitto rappresentano una delle prime risorse nazionali). Gli autonomi hanno rivendicato in particolare una inversione di marcia nel processo di privatizzazioni voluto da Mubarak e una nuova espansione dello Stato sociale con la stabilizzazione di migliaia di precari e l’aumento del salario minimo mensile di 1.200 di Lire egiziane (circa 135 euro). Difficilmente sarà possibile accondiscendere a queste richieste per qualunque sarà il futuro governo egiziano, in considerazione sia della crisi finanziaria globale, sia dell’opposizione che misure del genere solleverebbero tra la media e alta borghesia del Cairo.
La scommessa politica è di non deludere un senso di grande attesa, riuscendo a incanalare il desiderio di espressione e partecipazione in forme organizzate di governo democratico. Elezioni generali sono in programma per metà giugno e saranno seguite da quelle presidenziali entro la fine dell’anno. Una prima prova è stata il referendum del 19 marzo scorso quando il 41 per cento degli aventi diritti ha votato in larghissima parte a favore delle riforme costituzionali che includono il limite di due mandati quadriennali per il futuro presidente dell’Egitto, il divieto a candidarsi per chi abbia doppia nazionalità, l’impegno per il neo-eletto presidente a nominare entro 60 giorni il vice-presidente, il controllo della magistratura sulle elezioni e la fine dello Stato di emergenza attraverso il quale Mubarak ha potuto governare con il pugno di ferro.
Le formazioni liberali che hanno animato la protesta di piazza Tharir hanno espresso la perplessità verso una prova elettorale probabilmente troppo affrettata rispetto alle loro ancora embrionali capacità organizzative e di mobilitazione, considerando anche che il contenuto delle riforme è stato pressoché proposto come un prendere o lasciare dal Consiglio militare. Al contrario il movimento islamista dei Fratelli musulmani, uscito dalla clandestinità dopo anni di persecuzioni da parte del regime, ha appoggiato il referendum. Resta il dato che i voti contrari non hanno superato il 28 per cento.
L’ex dittatore Mubarak si trova a Sharm el Sheikh sottoposto a cure mediche dopo che nelle scorse settimane è stato esposto a una vera e propria gogna mediatica per la accuse di corruzione che hanno interessato anche i suoi più stretti collaboratori: sono finiti sotto processo per appropriazione indebita l’ex ministro delle Finanze Youssef Boutros-Ghali, quello del Commercio, Rachid Mohamed Rachid e il segretario personale Hussein Salem. Complessivamente il Consiglio militare ha mandato sottoprocesso dopo la rivolta di piazza Tharir più di 5 mila persone (oppositori e affiliati del regime), sollevando le critiche di Human Rights Watch per l’abuso nel ricorso ai tribunali militari. Il passato regime era sicuramente autoritario e corrotto, ma la criminalizzazione di Mubarak, a scapito degli anni di grande consenso per il regime, non può che nuocere a un confronto politico serio, squalificando a priori tutti coloro che hanno un trascorso più o meno importante nell’ex partito di governo, mentre «il National Democratic Party (Ndp) ha avuto anche membri onesti che protestarono contro i brogli nelle elezioni generali dello scorso anno».
L’esercito è oggi il vero padrone del paese che si è fatto garante dell’ordine pubblico e di una transizione quanto possibile più ordinata al nuovo regime. Se si considera però che Mubarak fu prima di tutto un’espressione dell’esercito e governò con l’esercito si capisce come la rivoluzione egiziana sia solo all’inizio. Inoltre l’esercito egiziano combina il potere politico con un forte potere economico: ai generali appartengono fabbriche di automobili ed elettrodomestici, mentre interi villaggi turistici lungo la costa del Mar Rosso sono stati costruiti su concessioni militari. Gli interessi dei militari nell’economia sono tali da non metterli al riparo da accuse di corruzione simili a quelle rivolte a Mubarak e ai suoi accoliti. La rivoluzione egiziana riuscirà ad essere realmente rivoluzionaria riportando il paese a un vero potere non solo democratico, ma anche civile?
*Docente in Storia dell’Africa, Università di Pavia