«I problemi sono due: da un lato norme prolisse e non sempre lineari; dall’altro una giustizia lenta e inefficace». In un intervento pubblicato oggi sul Sole 24 Ore, Renato Brunetta commenta così le tardive accuse che Emma Marcegaglia ha rivolto al Governo durante la sua ultima assemblea da presidente di Confindustria. Per il ministro della Pubblica amministrazione, «se il decisore politico interviene modificando la normativa, viene immediatamente aggredito dai tutori delle garanzie così come da quanti, nel mondo imprenditoriale, hanno accasato le loro rendite nei codicilli». L’economista veneto poi lamenta: il legislatore, ogni volta che prova a riformare le normative, finisce inevitabilmente in pasto alle «toghe più ciarliere».
Che sia vero o no, l’annunciato snellimento della Pa si è incagliato lo scorso febbraio su un triplice niet da parte di Conferenza Stato-Regioni, Consiglio di Stato e ministero dell’Istruzione, a pochi giorni dal via libera di Cisl e Uil sul salario di produttività. Cioè il famigerato “blocco dei contratti” nel pubblico impiego, ratificato dal blocco sindacale cattolico-socialista a condizione di mantenere inalterato il quadro per i contratti in essere. È questo il terreno in cui si gioca la partita con Brunetta: gli iscritti alla Cisl valgono il 30% del totale dei lavoratori sindacalizzati. Più precisamente, al 2009 (ultimo aggiornamento disponibile) i soli tesserati che operano nella Funzione pubblica sono 325.686 (senza contare Scuola 235.080, Università 11.013 e Innovazione e Ricerca, 3.935), rispetto ai 407.671 della Cgil e ai 340.812 della Uil. Numeri che fanno gola alle tre principali sigle italiane e fanno della Cisl un peso massimo con cui l’Aran, l’ente che rappresenta lo Stato nella contrattazione sul pubblico impiego, deve sudare per scendere a patti.
Dopo il disegno di legge contro l’assenteismo contenuto nella manovra d’estate 2008, il fiore all’occhiello del professore veneziano prestato alla politica è il decreto 150/2009. Un provvedimento che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto mettere un po’ d’ordine nel multiforme settore del pubblico impiego, dove convivono insegnanti e militari, medici e diplomatici. Un totale di 3 milioni e mezzo di lavoratori, e un peso pari al 20% del Pil italiano.
Dallo scorso autunno, il punto di rottura riguarda la contrazione, da 12 a 4, dei comparti di contrattazione. Che significa, da un lato, ridefinire gli equilibri all’interno della Rsu, dall’altro, per le singole sigle, riorganizzare le diverse federazioni del pubblico impiego. «Attualmente, ognuno dei 12 comparti è la risultante di una struttura organizzativa che ogni sigla sindacale si è data. Sarebbe bastato, nell’ambito della legge 15, che accompagna la 150, stabilire che la rappresentatività fosse calcolata nei sottocomparti – fermo restando le quattro macro aree – per risolvere agevolmente il problema», spiega a Linkiesta Gianni Baratta, segretario confederale Cisl. Sul tema, lo scorso novembre, Susanna Camusso si era schierata con i cislini: «Bonanni ha detto al congresso della Cgil che l’unità sindacale può ripartire dal tema della rappresentanza, un primo atto concreto è consentire ai pubblici dipendenti di votare i loro rappresentanti». Un appello caduto nel vuoto.
Le macro aree proposte lo scorso settembre dall’Aran prevedevano un comparto del personale di agenzie fiscali, ministeri, enti pubblici non economici, istituzioni e ricerca universitaria; un altro solo per le autonomie locali, un terzo legato a scuola e istituzioni di alta formazione, e una quarto per Sanità e Regioni, con l’esclusione di poliziotti, militari e dipendenti del ministero della Difesa. Non stupisce che per il sindacato bianco sia più agevole contrattare negli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori che sedersi ad un tavolo con il ministro antifannulloni. Anche perché «Brunetta parla, e Tremonti taglia», come lamentano i vertici di via Po. Ai rappresentanti dei lavoratori Brunetta ha proposto il blocco delle assunzioni fino al 2013, che corrisponde ad una riduzione di circa 300mila lavoratori (-8,4%) e un contemporaneo aumento della produttività pari al 2%. Gli ultimi dati della Ragioneria generale dello Stato, tuttavia, mostrano una realtà differente: negli ultimi tre anni, i costi del personale sono sempre lievitati, da 156,112 miliardi di euro del 2007, ai 166,658 del 2008, per finire con i 168,149 del 2009, ultimi disponibili.
Se l’apertura di Bonanni ha accelerato l’innovazione nelle relazioni industriali, come dimostra il caso Fiat, perché nella Pa, fatte le debite proporzioni, si gioca al ribasso, optando per mantenere lo status quo? Non si tratta certo di numeri: alla stregua del pubblico, anche tra le tute blu Fiat di Mirafiori, ad esempio, i tesserati Cisl sono la maggioranza. Secondo i dati dello scorso novembre, nell’area Carrozzerie la Fim contava 750 iscritti, contro i 650 della Fiom, i 600 della Fismic e i 550 della Uilm; stresso discorso per il sito produttivo: 1300 tesserati rispetto ai 1200 della Fiom, ai 900 della Uilm e agli 800 autonomi della Fismic.
Per Bruno Manghi, sociologo e direttore per tre lustri del Centro Studi Cisl, «ci sono stati dei casi di scuola, come le grandi riforme dell’Inps, dell’Inail e dell’Agenzia delle Entrate, in cui la Cisl ha assecondato trasformazioni epocali. Allora, però, c’era una proposta chiara e condivisa, mentre Brunetta, a parte i primi exlpoit contro l’assenteismo, è stato piuttosto vago». Marchionne invece, dice Baratta, «ha messo sul piatto Fabbrica Italia, un progetto da 20 miliardi di euro».
A differenza della Fiat, gli equilibri sindacali all’interno delle circa 10mila aziende italiane della Pa – dal presidio sanitario sul Monte Amiata al Ministero degli Esteri – sono ben saldi in una logica di rendita di posizione. Non a caso, sulla riforma Brunetta, la Cisl pone l’accento sulla questione del “personale in eccedenza”. «Non è che gli infermieri sono troppi, è che la sanità è commissariata in mezza Italia» è il pensiero smarcante di Baratta. La riforma “muscolare” di Brunetta, com’è stata definita dai sindacati, rischia di rimanere soltanto un’intenzione: per la Cisl, bypassare il negoziato per decreto, come è avvenuto con Marchionne, è fuori discussione.