IL CAIRO – ALESSANDRIA D’EGITTO – In previsione delle prossime elezioni generali in Egitto programmate per giugno, la regola democratica potrebbe avere più peso di una reale democratizzazione del sistema politico e del paese: l’estremismo è il «maggior nemico dei sogni democratici all’indomani della rivoluzione» .
Dopo la caduta di Mubarak la transizione al nuovo regime democratico è nelle mani del “Consiglio supremo delle forze armate“. Fino ad ora l’esercito è riuscito in quel ruolo di garante della sovranità e dell’ordine che altrove nel mondo arabo è venuto invece meno, aprendo alla guerra civile come in Libia e forse in Siria. Le forze più liberali che all’interno della società civile hanno guidato la protesta in piazza Tharir sono anche quelle meno organizzate che hanno bisogno di tempo per organizzarsi e mobilitare la società, mentre quei tanti che senza una particolare appartenenza politica hanno partecipato alla rivolta sono ritornati ordinatamente alla loro vita e al loro lavoro. Ormai completamente delegittimato l’ex partito di governo, il National Democratic Party (Ndp), il rischio concreto è che ad avvantaggiarsi delle imminenti elezioni saranno i Fratelli musulmani.
Fondati nel 1928 a Ismailia da Hasan al Banna, i Fratelli si battono per un ritorno a una società islamica delle origini contro la modernità occidentale. Messi al bando durante gli anni Cinquanta, sono stati sistematicamente perseguita dal regime di Mubarak per le loro connessioni con l’estremismo islamico e il terrorismo. Nonostante siano stati costretti a operare nella clandestinità per anni i Fratelli sono oggi una forza politica e sociale importantissima, fortemente radicata nel paese specie per le attività di beneficienza legate alla loro predicazione religiosa.
Nelle ultime settimane i Fratelli hanno fatto di tutto per mostrarsi come credibili interlocutori di istituzioni laiche e democratiche nel tentativo di scrollarsi di dosso l’etichetta di fondamentalisti/terroristi. Il 30 aprile scorso i Fratelli hanno fondato il Freedom and Justice Party (Fjp), sotto la guida di Mohmoud Hussein, per aggirare il divieto imposto dal Consiglio militare che impedisce la formazione di partiti dichiaratamente a sfondo religioso o etnico. Nella denominazione scelta si vede l’accorta politica di maquillage politico e populistico nel processo di appropriazione di due delle parole più usate (giustizia e libertà) da coloro che hanno animato la protesta in piazza Tharir. Nel medesimo senso va anche la rinuncia a candidare un proprio uomo alle elezioni presidenziali, annunciata dai Fratelli nei giorni caldi della rivolta e poi ripetutamente confermata. I Fratelli hanno infine detto di ambire al 50 per cento (si è detto anche il 75 e il 30 per cento) dei seggi nel nuovo parlamento: una tale posizione invece di impensierire un sano democratico dovrebbe rassicurarlo sulla loro buona fede nel ricercare – come ha detto uno dei loro portavoce – «partecipazione, non dominio» assoluto nel governo del paese .
È difficile dire se i Fratelli abbiano davvero tutto il seguito che essi stessi si attribuiscono, confortati da molti analisi ed esperti internazionali ed egiziani. Se l’ampio consenso registrato al referendum costituzionale del 19 marzo deve essere letto come una capacità di mobilitazione dei Fratelli verso posizioni più scettiche dei liberali, allora i Fratelli sembrano avere una considerevole presa sulla società egiziana, tuttavia vi è sicuramente anche chi ha votato “sì” al referendum non per dimostrare il sostegno ai Fratelli, ma bensì per sostenere i militari che stanno gestendo una complessa transizione. Difficilmente i Fratelli saranno in grado di infiltrare i miliari ed è altrettanto probabile che i militari difficilmente vedrebbero di buon occhio un nuovo sistema politico in mano ai Fratelli.
La vera prova per i Fratelli potrebbe venire prima di tutto dal rapporto con le altre componenti dell’Islam in Egitto. Non è certo un caso se il 3 maggio Mohamed Badei, la suprema guida dei Fratelli, ha incontrato Ahmed el-Tayyeb, il massimo esponente della moschea-università di Al-Azhar che, forte della sua tradizione millenaria di studi, è considerata uno dei principali punti di riferimento per i credenti in Egitto e in tutto il mondo islamico. El-Tayyeb, che fu nominato l’anno scorso da Mubarak, ha convenuto sulla «comune idea di divulgare un Islam moderato e far fronte contro l’estremismo», mentre per Badei l’incontro è stato «un beneficio» per la nazione, islamica però. I Fratelli cercheranno sicuramente di far passare il loro messaggio di Islam militante e rigorista tra i tanti musulmani moderati e qui probabilmente si vedrà realmente la loro forza politico-sociale. La nascita del nuovo Fjp ha già scontato un contrasto interno per la nomina dei vertici del partito imposti dai Fratelli: la corrente più giovane del Fjp ha infatti contestato la nomina che li ha scavalcato, rivendicando indirettamente una maggiore autonomia del partito rispetto ai Fratelli.
La paura che un regime islamista si instauri al Cario (non ci sono solo i Fratelli, ma anche i Salafiti, i veri estremisti musulmani) ha innescato reazioni uguali e contrarie in campo copto. L’Egitto che oscilla tra gli 80 e 85 milioni di persone ha una minoranza cristiana di rito copto che affonda le sue origini ai tempi della vita di Cristo. I dati, estremamente contestati per ovvi motivi, sono nell’ordine dell’8-10 per cento di copti sul totale della popolazione (quindi 7-10 milioni), che in alcune regioni del paese o quartieri delle principali città costituiscono la maggioranza relativa. Lo scenario peggiore è che la conflittualità politica si sposti decisamente e definitivamente su appartenenze religiose, alimentando un conflitto identitario dalla portata deflagrante. Fonti confidenziali riferiscono di una mobilitazione in corso nelle comunità copte del Cairo e di Alessandria per formare un partito copto, pur nel limite costituzionale di non poterlo riferire esplicitamente all’identità religiosa. Il conflitto sarebbe dietro l’angolo in un paesaggio urbano come quello delle due grandi megalopoli egiziane dove moschee e chiese si alternano senza soluzione di continuità lungo l’orizzonte.
La difesa di uno Stato laico è il pilastro dei principali movimenti liberali nati all’ombra della rivoluzione, ma difficilmente questo obiettivo si potrà conseguire senza il sostegno dell’esercito e i liberali d’altra parte non vorrebbero aver lottato contro Mubarak per ritrovarsi di nuovo sotto un regime esplicitamente o fintamente militare. Amr Moussa, l’ex Segretario generale della Lega araba che ha lasciato la direzione dell’organismo internazionale per candidarsi alle prossime presidenziali in Egitto, potrebbe essere la soluzione di mediazione (e transizione nella transizione) migliore, per lo meno nel breve periodo, ma l’incipit della sua campagna elettorale ha suscitato contestazioni nelle province dell’Alto Egitto, quelle più neglette e penalizzate dal regime di Mubarak. In ogni caso l’ipotesi di escludere forzosamente i Fratelli dalle prossime elezioni non potrà far altro che portare a una loro ulteriore radicalizzazione.
*Docente in Storia dell’Africa, Università di Pavia