Fin dagli albori del movimento, i politici della Lega condiscono i loro discorsi di parole triviali ed espressioni colorite. I riferimenti sessuali sono diventati perfino un attributo qualificante dei fazzoletti verdi con l’espressione “celodurismo”, termine entrato con forza nel lessico politico e perfino nelle pagine dell’augusto vocabolario “Devoto Oli”, sin dal 1994.
I successi elettorali del movimento guidato da Bossi potrebbero far pensare che un lessico volgare paghi alle urne e stimolare anche esponenti di altri partiti a seguirne l’esempio. Ma quando Bersani – per fare solo un esempio – prova ad inserire qualche termine più piccante nei propri discorsi (l’ultimo è stato il “flettente” a proposito della virilità della Lega) viene coinvolto in polemiche senza fine e rischia di perdere voti.
Si potrebbe pensare che ci sia una differenza – ontologica – fra i due elettorati, che chi vota a sinistra non sia capace di perdonare lo sconfinamento nel territorio del linguaggio scurrile. Ma il successo di politici che usano toni e parole altrettanto salaci attingendo voti nel bacino elettorale della sinistra – Grillo è solo l’esempio più eclatante – ci permette di escludere questa ipotesi.
La ragione sta invece in un altro fattore. La parola magica è “corrispondenza”. Per essere efficace, infatti, il lessico di un politico deve “corrispondere” all’immagine che questi intende proporre di sé. Cosa vuol dire nel nostro caso?
Non c’è bisogno di ricordare che uno dei fattori che contribuisce ai risultati elettorali della Lega, è la disaffezione verso le forze politiche tradizionali, che Mannheimer in una delle prime analisi sul fenomeno, prefigurava già nel 1991, ben prima dello scoppio di Tangentopoli e che con “Mani pulite” si è ulteriormente rafforzata.
I leghisti rompono la consuetudine con il linguaggio tradizionale della politica preferendo un linguaggio comprensibile, quotidiano e popolare, semplice dal punto di vista lessicale e sintattico, con termini di uso comune e scarso ricorso alla subordinazione. L’uso di termini dialettali e il turpiloquio contribuiscono a rafforzare la sensazione di rottura con i codici tradizionali della politica.
Il linguaggio dei politici del Carroccio si mostra efficace, dunque, innanzitutto perché marca una discontinuità, con il politichese e – dunque – con i politici tradizionali. È coerente con quell’alterità professata dichiaratamente; in sintesi, la Lega è diversa e parla in modo diverso.
Questo non è valido per il centrosinistra, che propone di sé un’immagine in linea con la politica tradizionale, tendenzialmente seria e responsabile (nel senso letterale del termine e non in quello che ha assunto nella recente attualità politica). In tale contesto il turpiloquio non è apprezzato dagli elettori perché non è in linea con l’immagine del partito. È una macchia di sugo sulla camicia bianca.
Né si inserisce positivamente nel contesto linguistico che caratterizza i politici democratici, tendenzialmente infarcito di termini della politica e di tecnicismi, di “sindacalese” e di vocaboli giuridici. Inserito in questo contesto il turpiloquio appare fuori luogo e fine a se stesso.
La scelta di inserire termini volgari nel discorso fa pensare a quel signore sovrappeso che – resosi conto della propria pinguedine – decide di intraprendere una dieta massacrante. In altre parole si passa da un estremo all’altro, dal “democratichese” più incomprensibile al lessico da osteria.
Il rischio di una scelta di questo genere, per i politici democratici, è quello di copiare gli aspetti peggiori del leghismo anziché le novità importanti che il movimento di Bossi ha introdotto nella pratica della costruzione del consenso. E di perdere un’occasione, quella di riflettere sull’opportunità di semplificare il proprio linguaggio politico, per renderlo comprensibile a tutti e non soltanto a chi ha seguito studi superiori o è appassionato di politica. Di renderlo, dunque, veramente democratico.