Raggiunto ieri in serata un accordo tra Ue e Fmi da una parte e Portogallo dall’altra, per una erogazione di emergenza a Lisbona pari a 78 miliardi di euro in un triennio. Sospiro di sollievo del primo ministro uscente, José Socrates, in carica per il disbrigo degli affari correnti fino alle prossime elezioni generali, il 5 giugno. Non è tuttavia chiaro se tale sollievo abbia motivazioni razionali.
Dei 78 miliardi, 12 serviranno a ricapitalizzare le banche; si tratta di una misura dovuta, sia per il traguardo di Basilea III che per tenere in considerazione il peggioramento medio della qualità degli attivi indotto dalla crisi. Come beneficio collaterale, le banche portoghesi potranno, in prospettiva, evitare di usare i finanziamenti della Bce come una tenda ad ossigeno. In assenza di questa parte della manovra, ed in presenza di un deflusso di depositi, l’unica alternativa per le banche era quella di liquidare gli attivi, cioè chiedere il rientro di fidi e scaricare titoli sul mercato, con pesanti riflessi aggiuntivi sull’economia del paese.
Si diceva di Socrates, che ha annunciato ai portoghesi che la manovra avrà un minore contenuto di lacrime e sangue rispetto a quelle inflitte a Grecia e Irlanda. In effetti, il nuovo piano prevede che il target del 3 per cento di rapporto deficit-Pil sia raggiunto nel 2013, un anno dopo rispetto al piano di risanamento oggi in essere. Evidentemente, a livello di Ue e Fmi in questi mesi è cresciuto il convincimento che queste manovre esercitano pesanti effetti depressivi sulla crescita, e che finiscono con l’instradare il rapporto debito-Pil su un sentiero esplosivo. Non che un anno di rimodulazione della stretta fiscale faccia una differenza sostanziale, però. E soprattutto, manca la variabile fondamentale: il costo del prestito, che sarà deciso solo tra un paio di settimane.
Se il tasso sarà più alto di quello richiesto a Grecia ed Irlanda, il beneficio della diluizione della stretta fiscale sarà vanificato; se sarà più basso, è facile immaginare richieste di Atene e Dublino per ottenere questo benefit aggiuntivo. Il premier Socrates ha spiegato ai portoghesi che non ci saranno né tagli delle retribuzioni pubbliche nominali, né licenziamenti di pubblici dipendenti, né variazioni all’età pensionabile, mentre la maggiore banca del paese, Caixa Geral de Depositos, non sarà privatizzata. Tutto bene, quindi? Non proprio, visto che tra i tagli è prevista una significativa sforbiciata al generoso sussidio di disoccupazione, oggi pari ad un massimo di1258 euro mensili fino a 36 mesi, che sarà portato a 1048 euro massimi per non più di 18 mesi. Tra le altre misure, un italianissimo contributo di solidarietà sulle pensioni superiori a 1500 euro mensili, ed il blocco delle retribuzioni dei pubblici dipendenti fino a tutto il 2013. Altra misura “italiana”, che avrà effetti depressivi sul potenziale di crescita di lungo periodo, è il blocco dei grandi progetti infrastrutturali.
Vedremo come andrà a finire, per un paese che nel 2010 aveva promesso di portare il rapporto deficit-Pil al 7,3 per cento, e che ha invece chiuso l’anno al 9,1 per cento, dopo aver finto manovre correttive la più eclatante delle quali è stata il giochetto contabile della nazionalizzazione del fondo pensione di Portugal Telecom. Per noi italiani il caso portoghese è interessante, perché è il caso di un paese che da un decennio non cresce (0,8 per cento medio annuo), e che necessita di profonde riforme strutturali pro-crescita, essendo afflitto da un profondo deficit di competitività. Non vogliamo con questo suggerire che l’Italia potrebbe essere il Portogallo prossimo venturo (ci sono anche importanti diversità), ma se occorre studiare il caso di un paese finito nei guai per assenza di crescita e di riforme, il Portogallo è il nostro avatar.