Vulcani islandesi e debiti: in Europa nulla cambia

Vulcani islandesi e debiti: in Europa nulla cambia

Nel caso non ve ne foste accorti, siamo ancora nel 2010. L’eruzione di un vulcano islandese blocca i cieli inglesi e scozzesi e si teme possa costringere a terra gli aerei di mezza Europa, gli interessi sui bond greci continuano a salire, permangono le incertezze sui debiti sovrani dei Paesi periferici, l’agenzia di rating Moody’s dichiara un possibile declassamento di 14 banche inglesi.

Come nel Gattopardo, le molteplici misure adottate da Ue e Fmi per tenere a galla l’Ue sono finora servite a «cambiare tutto perché non cambi nulla». Andando a ritroso nelle cronache finanziarie di 365 giorni fa – sempre scontando l’effetto cedole – la piazza meneghina il 24 maggio 2010 cedeva il 2,59%, mentre proprio S&P, qualche giorno dopo, affermava che la manovra finanziaria offre «un sostegno all’attuale rating italiano e aiuta a realizzare l’atteso calo della spesa primaria in percentuale al Pil». Tredici mesi fa, esattamente il 28 aprile, sempre S&P declassava al livello “spazzatura” (da BBB+ a BB+) i bond di Atene, mentre George Papaconstantinou, il Tremonti ellenico, ammetteva che «il paese non può più rivolgersi al mercato», aprendo la strada al bailout congiunto Ue/Fmi da 110 miliardi di euro, poi approvato il 3 maggio 2010. 

Non è bastato. Atene ha annunciato pochi giorni fa un nuovo piano fiscale da 6 miliardi di euro per tagliare di 2,5 punti percentuali il deficit rispetto al Pil, oltre a privatizzazioni pari a 50 miliardi di euro da qui al 2015. Garanzie che il premier Papandreou ha dovuto concedere a Bruxelles in cambio del riscadenziamento dei debiti contratti dal Paese. Stamani differenziale dei cds sul debito quinquennale ellenico rispetto al bund quinquennale tedesco è schizzato a 1641 punti base, l’11,21% intraday (dati Cma Vision). Significa che per assicurare 10 milioni di dollari di bond greci servono 1,6 milioni di dollari l’anno, un record. Oggi, in un report, Moody’s ha sostenuto che un default greco potrebbe avere un impatto negativo sul merito debitorio degli altri periferici dell’Eurozona, dopo che, venerdì, Fitch aveva abbassato ulteriormente il rating sovrano a B+, spiegando che: «ci aspettiamo che arriveranno nuovi finanziamenti da parte dell’Ue e del Fmi, ma i bond ellenici non saranno soggetti a nessuna “ristrutturazione soft” o “riscadenziamento” che possa scatenare un default». Un giudizio sibillino.

Ieri il premier iberico Zapatero si è risvegliato con una coalizione sconfitta al test delle amministrative. Mentre la nube di cenere dell’impronunciabile vulcano islandese Eyjafjallajökul bloccava anche Malpensa, un anno fa, la popolarità dello stesso leader socialista iberico mostrava i primi segni di cedimento, dal 37 al 33% delle preferenze, l’indomani del piano di austherity da 15 miliardi di euro. Curiosamente, il diretto interessato, forse in una boutade elettorale, la scorsa settimana ha dichiarato che senza quella misura Madrid avrebbe imboccato la via del bailout. Il tasso di disoccupazione nel Paese attualmente supera il 21%, che si traduce in cinque milioni di persone in cerca di un lavoro. Un anno fa in Plaza del Sol non c’erano gli “indignados”.  Ma nonostante i risultati incoraggianti delle aste odierne – Madrid ha collocato 2,3 miliardi di euro ma con crescenti difficoltà dopo la razionalizzazione delle Cajas, le banche popolari iberiche – rimane il buco di 600 miliardi di euro nei bilanci degli istituti spagnoli causato dallo scoppio della bolla immobiliare. 

Se Madrid attende la rimodulazione degli equilibri politici dopo il vantaggio del Partito popolare, la vicina Lisbona non ride: il deficit lusitano è balzato dal 2,8% del 2008 al 9,1% del 2010, mentre il debito è salito al 77% del Pil. La settimana scorsa l’Ecofin ha dato il via libera al pacchetto da 78 miliardi di euro, mentre è entrata nel vivo la campagna elettorale per la successione a José Socrartes, il leader socialista accusato da Pedro Passos Coehlo, uomo forte del Psd (i socialdemocratici di centrodestra), di aver portato il Paese «sull’orlo della bancarotta». L’appuntamento con le urne è per il 5 giugno prossimo: al vincitore spetterà il difficile compito di ridurre di un terzo il deficit entro il 2013, secondo quanto previsto dalle condizioni del prestito Ue/Fmi. 

Al di là della Manica, cambia la valuta ma non la situazione. A maggio 2010 Londra registrava un deficit dell’11,4%, e un debito passato dal 44% del 2007 all’attuale 60,1% del Pil. Oggi, l’agenzia di rating cinese Dagong ha declassato il merito debitorio inglese di due livelli, da A+ ad AA-, e Moody’s ha posto sotto osservazione per un possibile downgrade 14 istituti di credito, tra cui i giganti Rbs, Santander UK e Lloyds: per Moody’s, «in futuro le banche che si troveranno in difficoltà non potranno più contare sul sostegno pubblico» come nel 2008. Insomma, il tempo passa, la crisi resta. Tutto resta come prima e forse questo spiega anche perché i governi perdono le elezioni anche in Germania dove l’economia mostra forti segni di crescita. 

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