Il 25 giugno 1991 la più settentrionale delle repubbliche federative jugoslave, la Slovenia, dichiara la propria indipendenza. Lubiana si ritrova da un momento all’altro catapultata da modesta città di provincia, con poco più di 250 mila abitanti, a capitale di uno Stato al centro dell’attenzione dei media di tutto il mondo. Il giorno dopo, un mercoledì, parte una lunga colonna di carri armati per schierarsi lungo il confine con Italia e Austria (vai alla fotogallery).
La guerra di Slovenia dura pochi giorni (finirà il 6 luglio) e provoca relativamente poche vittime (18 morti sloveni, 44 federali), ma è la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale che un conflitto si scatena in Europa e porta il rumore delle armi alle porte di casa nostra, con i combattimenti al valico confinario della Casa Rossa (a Gorizia, quasi in città) e a Fernetti (qualche chilometro fuori Trieste).
I primi episodi cruenti si registrano a Lubiana, con l’abbattimento di due elicotteri federali (uno dei piloti morti è sloveno perché l’Armata arruola soldati in tutte le repubbliche federative; gli ufficiali sono in maggioranza serbi e montenegrini) e nella cittadina di Trzin, non lontano dalla neocapitale, dove si scatena una furiosa battaglia. Il 28 giugno si combatte nell’aeroporto internazionale di Brnik, dove vengono uccisi due giornalisti austriaci, Norbert Werner e Nikola Vogel: un missile colpisce la loro auto. Sono i primi caduti dell’informazione in una guerra che vedrà morire molti giornalisti; tra gli altri, a Mostar, nel 1994, saranno uccisi da un colpo di mortaio Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo, della Rai di Trieste.
Immagini della guerra in Slovenia
Le immagini dell’attacco all’aeroporto di Brnik
Lo stesso giorno è anche quello che vede la guerra spostarsi ai confini con l’Italia. I territoriali sloveni decidono di riconquistare il valico della Casa Rossa, tra Nova Gorica e Gorizia. Un commando sloveno sbaraglia i federali: saltano tre carri, mentre restano a terra 5 morti e 36 feriti; il valico passa sotto il controllo di Lubiana. Altri morti a due passi dall’Italia sono quelli di Rabuiese, il valico confinario utilizzato per andare da Trieste all’Istria. Il 29 giugno, verso le otto del mattino, un blindato leggero dell’Armata federale tenta di forzare il blocco attorno al posto di confine. Gli sloveni reagiscono, restano uccisi un tenente e due soldati. Martedì 2 luglio si tengono duri combattimenti a Fernetti, il più importante valico tra Italia e Slovenia, quello che porta verso la capitale Lubiana. Per fortuna, nonostante si spari per tutto il pomeriggio e verso sera entrino in azione anche i cannoni dei carri armati, non ci sono vittime.
I protagonisti della cosiddetta guerra dei dieci giorni sono il neo presidente sloveno, Milan Kučan, e il ministro della Difesa, Janez Janša. Quest’ultimo, al tempo, ha 33 anni e una solida reputazione politica per essere finito in carcere a causa di alcuni articoli scritti nella rivista Mladina, dove criticava l’Armata (oggi è il leader della destra, ed è stato primo ministro). Si era laureato con una tesi sulla difesa territoriale, concepita da Tito per difendersi da un’eventuale invasione straniera, e mette con successo in pratica i princìpi titini contro i generali eredi del maresciallo. Ma riesce soprattutto a mettere in piedi una formidabile campagna mediatica: tutti i media internazionali sono calati a Lubiana e lui tiene conferenze stampa in mimetica, denunciando centinaia di morti ammazzati dai federali (inesistenti). Il piccolo Davide sloveno che combatte il Golia jugoslavo conquista la simpatia di tutto il mondo.
Il fattore più importante, in ogni caso, è il sostanziale disinteresse serbo per la piccola repubblica settentrionale. Non esiste una minoranza serba da difendere (come invece sarà il caso, tre mesi più tardi, della Croazia), oltre il 90 per cento dei due milioni di sloveni è di etnia slovena. Inoltre la Slovenia è la più ricca delle repubbliche federative e può permettersi di sborsare una cifra significativa per rabbonire Belgrado. Così, il lungo convoglio di tank che la mattina del 3 luglio parte dalla capitale jugoslava diretto a nord, non arriverà mai a destinazione.
Tra il 4 e il 6 luglio le truppe della Jna (Jugoslovenska narodna armija; Armata popolare jugoslava) rientrano nelle caserme e si preparano ad abbandonare la neonata repubblica. Curioso il caso di Fernetti, dove le guardie confinarie scelgono di passare in Italia (cosa non particolarmente complicata, come si può intuire) e vengono in seguito rimpatriate; mentre Ivan Vodopivec, il combattivo (tiene le conferenze stampa armato di pistola) sindaco di Sežana, la prima cittadina slovena al di là del confine, impone ai carri armati federali di non andarsene sui propri cingoli, che rovinerebbero l’asfalto, ma issati sui bilici dei camion.
Gli accordi di Brioni (un gruppo di isole al largo di Fasana, in Istria, già residenza del maresciallo Tito) mettono fine alla prima, alla più breve e meno sanguinosa delle guerre jugoslave. La Jna comincia a ritirarsi dopo alcuni giorni e in ottobre l’ultimo militare federale lascerà il territorio sloveno. Ma in quella data ormai si combatte aspramente in Croazia.