Dalle regole per la «privatizzazione» della gestione dell’acqua al referendum per bloccare la sua applicazione. In quindici anni il fondatore dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro ha ribaltato la sua idea in materia di servizi idrici e soprattutto di mercato. Per capire questa parabola bisogna tornare al 1996 quando l’ex Pm di Milano viene chiamato nel Governo Prodi come ministro dei Lavori Pubblici. Una poltrona delicata che Di Pietro terrà per sei mesi (si dimetterà il giorno dopo in cui gli viene notificato l’avviso di garanzia dalla Procura di Brescia una nuova indagine nei suoi confronti) ma che gli permetterà di introdurre il «Price cap».
Con un decreto ministeriale si applica il cosiddetto metodo normalizzato per la determinazione della tariffa di riferimento per i servizi idrici: un nuovo sistema tariffario regolato secondo la metodologia dei limiti di prezzo o, appunto «Price cap», una tariffa sperimentata con successo in Inghilterra e indicata anche nella legge 481/95, che istituisce le autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, come regolatore delle tariffe dei servizi pubblici. In sostanza si prevede che gli oneri derivanti dagli investimenti necessari per il raggiungimento di più elevati livelli di servizio si ottenga attraverso il ricavo delle tariffe, con tetto fissato dall’autorità.
Un servizio autosufficiente: la bolletta deve essere in grado di sostenere tutto il ciclo integrato dell’acqua e soprattutto fuori della spesa pubblica. Una scelta che all’epoca è stata fortemente criticata dai sindacati, tanto che Cgil, Cisl e Uil uniscono le forze per chiedere al Governo di rivedere l’orientamento sulle tariffe del servizio idrico come acqua potabile e fognature. «Spero che venga modificato – commentava all’allora leader della Cgil Sergio Cofferati, oggi europarlamentare Pd – prima che il Parlamento approvi il Documento di programmazione economica finanziaria o prima di una decisione formale e non reversibile del Cipe.Altrimenti il governo sarà responsabile di incrementi inflattivi assai pericolosi».
La paura che allarma i sindacati era dunque un aumento pericoloso delle tariffe e una spirale di inflazione. Di tutt’altro avviso invece l’allora ministro dei lavori pubblici Di Pietro: «Il rinnovo del sistema tariffario è il nodo centrale da sciogliere per ottenere una ripresa generale degli investimenti nel settore idrico» anche con l’intervento di capitali privati. Investimenti che, nelle stime del Ministero, avrebbero portato 30mila nuovi posti di lavoro, muovendo notevoli risorse: 80 mila miliardi di lire in 10 anni, con una quota di investimento media pro-capite di 1,5milioni per ogni cittadino italiano.
Era luglio del 1996 nel frattempo il costo dell’acqua nel nostro Paese è salito da una media di 600 lire a metro cubo ad una spesa che varia da città a città e regolata dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica dal 2002: oggi a Milano è di 60 centesimi al metro cubo, mentre sale a 1.12 euro a Torino, 1.52 a Genova e 1.27 a Bologna.
Con le liberalizzazioni dell’intero settore, iniziate a metà degli anni novanta, le imprese di servizio pubblico locale (acqua, rifiuti, gas, trasporto, igiene ambientale) hanno registrato un notevole dinamismo con fusioni aziendali e aggregazioni che hanno consentito un migliore servizio e industrializzazione del comparto. Il numero degli addetti del settore idrico è cresciuto esponenzialmente: erano 6mila del 1997 oggi sono oltre 25mila e, di pari passo, gli investimenti hanno toccato oltre 2 miliardi 378 milioni di euro (dati Mediobanca elaborati da Confservizi per l’anno 2009).
La via tracciata da Di Pietro era quella giusta? Forse, ma l’ex ministro del lavori pubblici è ritenuto «colpevole» di aver dato il via alla privatizzazione dell’acquedotto Pugliese, madre di tutte le battaglie dei comitati per l’acqua pubblica.
L’Acquedotto Pugliese è il più grande acquedotto d’Europa che tocca quattro Regioni e 444 Comuni grazie ad un canale principale con 99 gallerie lungo 244 chilometri con diramazioni primarie per 920 chilometri (e secondarie per 2612) ai quali vanno aggiunti oltre mille chilometri tubazioni suburbane e 6470 chilometri di reti di distribuzione.
Un infrastruttura faraonica e una macchina di burocrazia che si decide di privatizzare a partire dal 1995 con la legge finanziaria. Di Pietro, l’anno successivo, predispone uno schema di decreto per avviare la privatizzazione dell’Ente e prevede la nomina di un amministratore straordinario per seguire il passaggio da soggetto di diritto pubblico a società per azioni controllata dalla Regione, spa che arriverà soltanto alle fine degli anni novanta. La graduale privatizzazione però non è mai stata attuata sotto la presidenza della Regione Puglia di Raffaele Fitto (ora ministro per gli affari regionali). E diventato Nichi Vendola governatore pugliese ha avviato la ripubblicizzazione con l’obiettivo di chiudere la società per azioni e tornare a soggetto pubblico.