All’inizio doveva essere un taglio alle tasse, era nel programma del governo. Poi è diventata una riforma fiscale a gettito invariato. Ora invece «sarà già un miracolo se riusciremo a non aumentare le tasse». Vincenzo Visco non è mai stato noto per essere un buontempone, ma si pensava di trovarlo più ridanciano dopo che in questi giorni Giulio Tremonti si è trovato a vestire quello stesso abito da Dracula che il ministro dell’Economia gli aveva cucito addosso con una freddura delle sue («Visco alle Finanze? Sarebbe come Dracula all’Avis»). In passato l’ex ministro delle Finanze dei governi Ciampi, Prodi e D’Alema, e del Tesoro con Amato (nel 2000), oltre che viceministro dell’Economia nel secondo governo Prodi, aveva rivendicato che alcune delle misure anti evasione introdotte dal governo, come la tracciabilità dei pagamenti, sono andate nella direzione delle sue proposte («sono abituato ad avere ragione a posteriori» aveva detto con un po’ di spocchia nel maggio dello scorso anno). Ma adesso è diverso e più che rivendicare o essere divertito dall’inversione di ruoli con l’arcinemico di Sondrio, adesso suona terribilmente preoccupato.
Tanto più dopo l’altolà di Bossi alle “ganasce fiscali“ di Equitalia, il discorso è ora ben diverso. Il Tremonti-Dracula sì «è un aspetto divertente» ma la similitudine, per Visco, finisce qua. L’attuale ministro delle Finanze «ha seguito una linea diversa dalla mia. Io cercavo di far pagare le tasse a chi non le pagava e quindi di creare degli strumenti che favorissero l’emersione. Tremonti ha invece soppresso quelle norme salvo poi re-introdurne alcune in modo limitato. E quello che ha invece fatto il governo è forzare la riscossione delle imposte dovute. Tuttavia l’indicazione di Bossi di non tassare i loro elettori l’ha sempre applicata e condivisa». Per ottenere l’obiettivo Tremonti ha usato soprattutto Equitalia e «ha fatto anche bene» però adesso «finita questa disponibilità di entrate potenziali, si trova in grande difficoltà». Lo stop dei lumbard sarà anche popolare pure oltre i confini padani, ma poi i soldi dovranno uscire da qualche altra parte.
I metodi usati dalla società creata nel 2005 (51% è in mano all’Agenzia delle entrate e il 49% all’Inps) per la riscossione di tributi e contributi evasi, hanno fatto infuriare Bossi a tal punto da dire che manco la sinistra si era spinta così in là («c’è gente che non poteva pagare ed Equitalia gli ha portato via la casa e la macchina. Una cosa vergognosa che neanche la sinistra ha mai fatto», ha tuonato a Pontida). E detto da lui ha davvero del sorprendente (memorabili furono alcuni scontri con la platea leghista, come quando nel settembre 2007 Visco, parlando in Veneto del crac argentino, disse che «quello è un Paese fatto per metà di italiani, molti sono anche veneti», aggiungendo che da quelle parti «l’attitudine a non fare i conti con la realtà c’è» e facendo così imbestialire un’intera Regione che già non lo amava per niente). Ma questi metodi «sono quelli più duri possibili e quelli che ha Equitalia sono più o meno come quelli che ha il Fisco in tutto il mondo». D’altra parte si tratta del «braccio violento del Fisco», sorta di Gene Hackman della riscossione.
Al di là dei metodi, occorre ricomporre il quadro: stop a Equitalia, governo in bilico, Grecia sull’orlo del tracollo, una manovra da almeno 40 miliardi in due anni che comporterà tagli alla spesa di cui ancora si sa poco o nulla, e Moody’s che ci tiene addosso il mirino puntato. Per essere una vera riforma fiscale si dovrebbero fare cose che in questo quadro sembrano impossibili. «I punti su cui la si può giocare sono cose che non si vogliono fare come la lotta all’evasione che però non si può fare perché si arrabbiano gli evasori. Ci sono poi le agevolazioni ma, se ci sono, in genere c’è un motivo, come ad esempio nel caso del salario di secondo livello. Poi c’è il patrimonio, ma quello è tabù per la destra e per la sinistra. Quindi di cosa stiamo parlando?». La riforma, «con questi chiari di luna non ci sarà mai. Solo se si agisse con determinazione su questi elementi si potrebbe fare». Ma appunto la volontà di toccare questi nodi è un bene assai scarso di questi tempi.
Se in alcuni casi manca la volontà politica, in altri, se pure ci fosse, mancherebbero gli effetti. Come nel caso dell’innalzamento della tassazione sulle rendite finanziarie. Il centrosinistra ci provò ma fu bloccato dai mal di pancia interni alla coalizione. «Poi anche lì non si portano a casa soldi, visti i tempi. Già quando la proponemmo noi, quando tutto andava bene sui mercati, si portavano a casa solo un paio di miliardi netti».
La lotta all’evasione e la patrimoniale non si possono quindi fare mentre l’innalzamento della tassazione sulle rendite finanziarie sarebbe quasi inutile. Ma allora la proposta tremontiana di spostare la tassazione dalle persone alle cose, può essere un’idea? «No», è la risposta, semmai «è uno slogan. Vediamo le “cose” quali sono: sono i consumi e i patrimoni e i patrimoni sono gli immobili. Lo slogan significa in realtà lasciare l’imposta personale progressiva e andare al contempo verso forme di tassazione come c’erano prima del 1971» e quindi della riforma tributaria. «Sono misure fiscali tipiche dei Paesi in via di sviluppo che tassano case e terreni, ci sono i dazi, qualche imposta su alcol e tabacco e così via. È un’idea premoderna».
Un’accusa questa di essere avversi alla modernità che, a dire il vero è stata rivolta qualche volta anche ad una creatura di Visco, l’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive istituita nel dicembre 1997. Invisa agli imprenditori, uno studio di Mediobanca di due anni fa diceva che «ha effetti potenzialmente discriminatori». L’ufficio studi di Piazzetta Cuccia metteva in luce che, soprattutto nel caso delle Pmi, produce un risultato più svaforevole per chi impiega più personale in rapporto agli utili – peccato che questo sia un settore che spesso combacia con il meglio del “made in Italy”, proprio quello su cui dovremmo puntare per uscire dalla crisi. Ma un buon padre raramente disconosce un figlio, tanto più se porta a casa denari: «L’Irap è considerata da tutti gli esperti di tassazione, fra quelli del Fmi, come la migliore imposta locale sulle imprese che oggi esista, così come l’ha definita anche Richard Bird, uno dei massimi esperti internazionali. Non la si può eludere e questo il motivo di tanta ostilità. Il problema vero è contabile. I contabili, secondo me sbagliando, l’hanno fatta mettere in bilancio all’ultimo rigo, per cui quando uno va a fare i conti tende a considerarla come un’imposta sui profitti mentre è un imposta sulla produzione, sul valore aggiunto, che colpisce i salari, gli interessi passivi e anche i profitti».
In pratica tanto fastidio sarebbe «un’illusione ottica. Tremonti all’epoca denunciò che faceva risparmiare un sacco di soldi alle imprese, e in effetti così è, alle medie, alle grandi e alle piccole. L’Irap poi non va valutata da sola. Era collegata alla Dit (Dual income tax, ndr) che invece Tremonti ha abolito. Il combinato disposto delle due faceva sì che le aziende erano incentivate ad investire e a limitare l’indebitamento. Draghi ne ha infatti chiesto la reintroduzione». Se uno avesse lasciato quel sistema lì completo, giura Visco, «adesso avremmo avuto la più bassa aliquota delle imposte societarie in Europa e le imprese sarebbero più capitalizzate».
E invece adesso i motivi per cui le tasse rischiamo di doverle alzare, e non ridurre o riformare, lo può evincere anche dai dati. Con una pressione fiscale del 42-43% del Pil l’Italia è un Paese ad alta tassazione, a livelli superiori alla media europea, ma analoghi a quelli degli altri grandi Paesi come Germania e Francia e delle nazioni del Nord Europa. Anche se, certo, i servizi erogati analoghi non sono. Tuttavia, se si tiene presente che circa 13 punti di gettito derivano da contributi sociali destinati al pagamento delle pensioni, risulta che le tasse in senso stretto sono il 29% del Pil, una cifra destinata a finanziare tutti i servizi degli investimenti pubblici, più gli interessi passivi e il deficit degli enti previdenziali. E «poiché la spesa per interessi e pensioni (debiti contratti in passato) è in Italia più elevata di 3-5 punti di quella degli altri Paesi europei, non sembra agevole conciliare la riduzione delle imposte con il pareggio del bilancio, per quanti sforzi si facciano dal lato delle spesa» ha scritto lo stesso Visco sul Corriere di dieci giorni fa.
Insomma al Visco altezzoso che dice «vedete che avevo ragione» se n’è sostituito un altro molto preoccupato. Che non solo non esclude che anche Roma possa fare una fine simile a quella di Atene. Ma che anzi chiude con un’ ammonizione: «Siamo in un’emergenza molto seria. Guardi che qui non c’è molto da fare. Operazioni indolore non ce ne sono più».