Nel 2012 l’attuale vicepresidente Xi Jinping succederà (quasi) sicuramente a Hu Jintao come segretario del Partito comunista cinese (PCC). E nel 2013 diventerà presidente della Repubblica popolare.
Ma al comando non ci sarà solo lui. I tempi dell’autocratico Mao e del carismatico Deng sono finiti. Per governare Xi avrà bisogno dell’appoggio di leader ambiziosi e influenti come Li Keqiang, Bo Xilai, Wang Qishan, Li Yuanchao. E dovrà poter contare sui vertici della burocrazia, dell’esercito e delle aziende di Stato.
I nuovi mandarini cinesi sono uomini spesso sconosciuti al pubblico italiano, ma che insieme alle loro controparti americane ed europee decideranno le sorti del pianeta. Linkiesta ha cercato di scoprire chi sono, cosa vogliono, quali sono le loro storie. Dopo Xi Jinping, è il turno di Li Keqiang.
Li Keqiang
Se i riti del Partito comunista cinese non muteranno, nel 2013 il vicepremier esecutivo Li Keqiang succederà all’attuale premier Wen Jiabao, che proprio oggi è in visita a Londra.
Per comprendere meglio la sua altalenante parabola politica, costellata di trionfi effimeri e sconfitte mai definitive, può aiutare un’antica favola dello Shandong: un vecchio aveva una giumenta, ma una notte la bestia scappò. Quando gli anziani del villaggio andarono dal vecchio a consolarlo, egli disse solo: “Ciò che sembra una sventura talvolta non lo è”. Il mattino seguente la giumenta fece ritorno, insieme a un magnifico stallone selvatico. Gli anziani del villaggio vollero congratularsi con il vecchio, lui però rispose: “Quello che sembra una fortuna qualche volta non lo è”. Quello stesso giorno suo figlio, nel tentativo di domare lo stallone, cadde rompendosi una gamba. Il vecchio non batté ciglio, e disse: “Ciò che appare come una sventura talvolta non lo è”. Poco tempo dopo scoppiò la guerra, e tutti i giovani in forze furono chiamati alle armi. Il figlio del vecchio però rimase a casa, perché infermo. Gli anziani del villaggio si felicitarono con il vecchio, ma la risposta di questi fu…
Li Keqiang nasce nel luglio del 1955 in Anhui, provincia orientale incuneata tra Jiangsu, Zhejiang, Jiangxi, Hubei, Henan e Shandong.
Suo padre, Fengsan, è un funzionario della povera contea di Fengyang. Unico tra sette fratelli ad aver studiato, uomo testardo e sanguigno, nei primi anni Cinquanta Fengsan è vicegovernatore di Fengyang, quindi lavora per la federazione culturale provinciale e poi per il tribunale di Bengbu, come presidente.
L’infanzia di Li è ordinaria, quasi grigia. Cresce nell’Anhui degli anni Sessanta, lontano dalle tempeste politiche che infuriano a Pechino. La sua contea natale, Dingyuan, è placida e modesta, ma meno insignificante di quanto si possa credere. Sono nativi della contea grandi eroi del passato cinese, come Qi Jiguang (il generale che sconfisse i pirati giapponesi nel XVI secolo). E anche se nessuno può dirlo con certezza, è improbabile che il piccolo Li, appassionato di storia, non abbia mai sognato di seguire le orme di Zhu Yuanzhang, il fondatore della dinastia Ming, che proprio a Dingyuan iniziò la sua ribellione contro i dominatori mongoli Yuan.
Per il futuro vicepremier la svolta arriva nel 1974. Benché la Rivoluzione culturale abbia ormai perso gran parte del suo feroce slancio, quell’anno il diciannovenne Li, fresco di diploma, viene inviato in una comune agricola della contea di Fengyang, a lavorare nei campi. In realtà dietro la trasferta rurale c’è lo zampino del padre, Fengsan, che sogna per il figlio un fulgido avvenire da vicesegretario del PCC proprio a Fengyang: il faticoso apprendistato tra i braccianti è dunque propedeutico alla carriera politica.
La comune è spaventosamente misera. I contadini sono così affamati che nei periodi di festa devono accantonare ogni orgoglio per andare a elemosinare un po’ di cibo, come i loro avi sotto l’imperatrice Cixi. Grazie al suo buon carattere (e al sostegno del padre) Li riesce però a conquistarsi le loro simpatie, e nel 1976, quando viene finalmente ammesso al PCC, diventa segretario del partito presso la comune.
Intanto nella RPC soffia un vento nuovo, primaverile. Mao è morto, la Banda dei Quattro sgominata, al potere arriva il modernizzatore Deng Xiaoping.
Un alito di quel vento giunge sino al villaggio di Xiaogang, a Fengyang. Nel novembre del 1978 diciotto contadini, stanchi di mangiare erba e radici, in gran segreto si dividono la terra dello Stato per coltivarla individualmente: se qualcuno di loro sarà arrestato gli altri dovranno sostenerne la famiglia. Questo primissimo esperimento di “capitalismo rurale” è benedetto dal successo: la produzione si impenna, i diciotto contadini diventano degli eroi, l’iniziativa è imitata in altri villaggi della contea.
Li non può che essere influenzato dal riformismo, semplice ma coraggioso, dei contadini di Fengyang. Bisogna liberalizzare, se si vuole cambiare la Cina.
A ventitré anni, dopo una durissima selezione, entra alla facoltà di diritto dell’Università di Pechino, meglio nota come Beida. Il padre non approva, vuole che il figlio resti in Anhui, con lui. Li però è irremovibile: ambisce sì a far carriera nel partito, ma lontano dall’ala protettrice paterna (suo fratellastro Keping la pensa diversamente, e diventerà vicedirettore della commissione dell’Anhui per la pianificazione).
Per un giovane idealista come Li la facoltà di diritto della Beida è il miglior luogo di formazione. Non è solo il tempio della scienza giuridica cinese (nemmeno la Rivoluzione culturale, con il suo odio per la legge, ha potuto chiuderla), ma è anche il laboratorio accademico del nuovo riformismo post-maoista. Un riformismo politico, oltre che sociale ed economico.
Come nelle povere campagne di Fengyang, Li brilla anche nelle severe aule pechinesi.
È giudicato «uno studente moralmente e intellettualmente superiore». Dotato di una memoria quasi prodigiosa, è tra gli allievi del professor Gong Xiangrui, eminente studioso della tradizione giuridica occidentale, specialmente anglosassone. Insieme con altri studenti Li contribuisce persino a tradurre in mandarino il saggio “The due process of law” di Lord Denning, celebre magistrato britannico.
Il futuro vicepremier si interessa soprattutto al diritto costituzionale comparato, ma studia in ugual misura economia e sociologia, scrivendo articoli su svariati argomenti. Non è l’unico giovane promettente: alcuni dei suoi colleghi diventeranno grandi giuristi, in Cina e negli USA.
Alla Beida Li coltiva poi la sua grande passione: la politica. Già allora eccellente oratore, viene eletto presidente del comitato esecutivo del consiglio studentesco. Conosce attivisti come Hu Ping, futuro autore del libello “Sulla libertà di parola”, e Wang Juntao, studente di fisica nonché membro della Lega giovanile comunista (“l’esercito di riserva” del PCC).
Wang sarà tra i leader della protesta di Piazza Tian’anmen, e anni dopo, dal suo esilio americano, ricorderà come, all’università, Li avesse una mentalità aperta, e auspicasse per la Cina un “governo costituzionale”, ossia basato sulla separazione dei tre poteri.
Dopo la laurea nel 1982, Li diventa segretario della Lega giovanile comunista presso l’ateneo. Inizia anche a giocare a tennis, così da poter stringere migliori legami con i pesi massimi della Lega, molti dei quali sono appassionati tennisti.
Non tutti, però, lo stimano. Il fatto che sia un giurista (anziché un ingegnere), e che abbia la nomea di ultra-riformista amico di radicali, fa storcere il naso a più di un dirigente. Gli anni trascorsi alla Beida di colpo si trasformano in un handicap.
La sua carriera ristagna, valuta perfino l’ipotesi di conseguire un PhD all’estero. Alla fine però decide di rimanere in Cina. Non è nella natura dei Li arrendersi. Grazie all’aiuto di un importante funzionario del PCC (il riformista Hu Qili, ex boss della Lega, provetto tennista) ottiene la direzione del dipartimento scolastico del comitato centrale della Lega, ed entra nella segreteria della stessa.
Li si rivela presto un ottimo elemento. Meticoloso ma equilibrato, non perde mai la pazienza con i sottoposti, e anzi riesce a conquistarseli con i suoi modi gentili e le sue premure: arriva perfino a organizzare per loro festicciole di compleanno, con regalini e dolciumi.
Entra nelle grazie del potente primo segretario della Lega, il quarantaduenne Hu Jintao. A sua volta pupillo del leader riformista Hu Yaobang, Hu vede in quello zelante, occhialuto giovanotto dell’Anhui un riflesso di se stesso: l’oscuro provinciale che caparbiamente cerca di arrivare agli Zhongnanhai, i Palazzi del Mare di Pechino, ossia il Cremlino cinese.
Li sa che, senza sponsor influenti, rischia di rimanere un semplice dirigente della Lega; di non superare la fase della “adolescenza politica”. Hu sa altrettanto bene che, nella sua lunga marcia verso la segreteria del partito, avrà bisogno di abili clienti, da dirigere e plasmare a sua immagine. I due stringono un patto di mutuo sostegno destinato a durare anni.
Nel 1992 Hu, dopo un tirocinio nella provincia sudoccidentale del Guizhou e nel Tibet in rivolta, approda al comitato permanente dell’ufficio politico del comitato centrale del PCC (il massimo consesso politico cinese). L’anno successivo Li, ormai sulla soglia dei quaranta, è eletto primo segretario della Lega. Non si tratta di una coincidenza: l’incarico gli permette di consolidare l’influenza del mentore Hu sul vivaio del partito, trasformandolo in una sorta di riserva personale.
Nonostante i mille impegni con la Lega, Li trova il tempo per tornare all’alma mater Beida. Punta al dottorato in economia, titolo indispensabile per chiunque aspiri a guidare una nazione in turbolento boom.
Studia sotto la guida del professor Li Yining, noto per la sua fede nel libero mercato. Insieme allo studioso (e a Li Yuanchao, altro dirigente destinato a far carriera) Li scrive perfino un libro, significativamente intitolato “Scelte strategiche per andare verso la prosperità”. Pubblica poi un articolo, “Sulla struttura tripartita dell’economia cinese” che gli vale l’importante premio economico Sun Yefang (nonché 8000 yuan, allora una somma cospicua).
Nel 1994 Li ottiene il dottorato. La cosa, naturalmente, non sfugge ai piani alti. Il rampante Hu, che segue i progressi del protetto passo dopo passo, inizia a considerarlo il suo erede politico: è leale, astuto, cauto, paziente. Grazie agli studi di economia, inoltre, Li ha sempre più il rassicurante profilo del tecnocrate, dello “scienziato socialista” super partes. Manca però di un requisito essenziale per ogni vero leader nazionale: l’esperienza di governo.
Per quanto abile come segretario della Lega, Li ha poca pratica amministrativa. E a parte Pechino e le campagne della provincia natia, non conosce granché dell’immensa Cina, terzo Stato del pianeta per superficie. Insomma, i Palazzi del Mare rimangono lontani.
Il delfino di Hu viene dunque trasferito nel centro-sud, in Henan, con la qualifica di vicesegretario del PCC e governatore. È un posto di grande rilievo: con i suoi novantatré milioni di abitanti la provincia è la più popolosa della RPC, pur essendo appena poco più grande della Tunisia.
Sono gli anni del capitalismo ruggente. La “cricca di Shanghai” è la fazione dominante all’interno del partito, il PIL cinese cresce a ritmi travolgenti (+8,4% nel 2000), nelle metropoli costiere fioriscono fabbriche e grattacieli.
Li, che è il più giovane governatore della storia della RPC (nonché il primo ad avere in tasca un dottorato) si dedica al nuovo incarico con la passione del neofita. Non deve solo amministrare l’Henan, ma contribuire a quella “ascesa della Cina centrale” che è uno dei cavalli di battaglia di Hu.
Memore dei diciotto contadini di Xiaogang, Li concentra i suoi sforzi sull’agricoltura, modernizzandola. Trasforma il già fertile Henan nel granaio cinese. E mentre nel resto della Cina il divario tra campagna e città si allarga, lui riesce a contenerlo (il risultato non può che compiacere Hu, teorico della cd “società armoniosa”).
La sua formazione giuridico-economica, poi, lo aiuta ad attirare ingenti capitali stranieri, cruciali per far decollare l’industrializzazione, e tenere alta l’occupazione.
I sei anni nell’Henan non sono però solo segnati dal successo. Anzi. La provincia, in caotica metamorfosi, è investita da un’ondata di violenza criminale, e il primo a esserne danneggiato è proprio Li, che agli occhi di molti concittadini appare come un leader privo di nerbo. Una simile fama, naturalmente, non gioverebbe a nessun politico del mondo, ma è ancora più deleteria in Cina, dove ci si aspetta che un vero capo, all’occorrenza, sia duro, capace di pugno di ferro.
Su Li sembra accanirsi la sfortuna. Tre roghi, incluso quello, devastante, in un centro commerciale a Luoyang la sera di Natale del 2000, persuadono il popolino superstizioso che Li porti jella. Inutile correre sul luogo del disastro per dirigere i soccorsi: il soprannome di “governatore tre incendi” gli rimane appiccicato come pece sui capelli.
Il sostegno del suo mentore, però, non viene mai meno. Nel 2002 Hu diventa segretario del PCC, e Li ottiene la segreteria in Henan. I Palazzi del Mare appaiono un po’ meno distanti, dal suo ufficio di capo del partito a Zhengzhou.
Il trionfo di Li, però, è effimero. In quello stesso periodo scoppia, infatti, uno scandalo che non solo travalica i confini provinciali, ma ha echi in tutto il mondo. Uno scandalo che nasce in quelle stesse campagne che Li si vanta di aver modernizzato.
Dai primi anni Novanta i più poveri contadini dell’Henan vendono plasma sanguigno per qualche spicciolo. “Donare plasma è patriottico” ripetono medici e funzionari locali, assicurando che il sangue, una volta estratto il plasma, sarà reso fino all’ultima goccia al donatore. In realtà i prelievi avvengono in spregio a qualsiasi norma sanitaria: il sangue viene raccolto, sulla base del gruppo sanguigno, in questa o quella vasca comune, e dopo l’estrazione del plasma viene re-iniettato ai contadini. Il risultato è che dilaga ogni genere di virus, incluso l’HIV. Si ammalano oltre centomila persone.
Inizialmente le autorità cercano di insabbiare tutto. I “villaggi dell’AIDS” diventano aree proibite (specie per i giornalisti stranieri); medici coraggiosi come la ginecologa Gao Yaojie, che da anni denuncia il fenomeno, subiscono gravi intimidazioni; prostitute e tossicodipendenti vengono trasformati in biechi untori da media compiacenti sino alla criminalità.
Alla fine le autorità si decidono ad agire, e sia Li sia leader nazionali come la vicepremier Wu Yi visitano i “villaggi dell’AIDS”. La rabbia, nella provincia, è palpabile. Per l’immagine di Li è un colpo durissimo. Non a caso nel 2004, in occasione del suo discorso d’addio come capo del PCC nell’Henan, ammetterà: «Le decisioni che ho preso non sono state sempre giuste, e alcune potrebbero risultare non appropriate in futuro, perciò sentitevi liberi di correggerle.»
Nel 2003 Hu diventa presidente, e l’anno seguente invia il suo delfino in Liaoning, nella fredda Manciuria. La “culla dell’economia pianificata”.
È una prova impegnativa. La provincia, che confina con la polveriera nordcoreana, è il cuore del Nordest cinese, regione di antica e gloriosa industrializzazione ma in grave crisi sociale. Le acciaierie e le fabbriche dei tempi di Mao sono ormai obsolete, non competitive in una “economia socialista di mercato”, e chiudono una dopo l’altra, lasciando a casa milioni di operai. Una delle priorità di Hu è proprio «rivitalizzare le vecchie basi industriali del Nordest». Tocca a Li trasformare lo slogan in realtà.
I risultati arrivano. Benché sembra che la sfortuna lo segua dall’Henan (due mesi dopo il suo arrivo nel Liaoning esplode una miniera di carbone, e oltre duecento minatori perdono la vita), Li vara importanti misure di sostegno all’economia provinciale.
Fondamentale è la strategia “cinque punti e una linea”, basata sullo sviluppo di cinque grandi aree industriali costiere (i punti) collegate da un’autostrada (la linea). «Il Liaoning ha una costa lunga più di 2200 chilometri. Perciò ha il potenziale per trasformarsi in un’altra locomotiva economica costiera. – arriverà a dichiarare Li nel gennaio del 2007, alludendo alle prospere province della costa meridionale.
Attirati da incentivi fiscali e parchi tecnologici, massicci investimenti internazionali si riversano nella capitale provinciale Shenyang, e nella bella città portuale di Dalian. Non si tratta solo di aziende taiwanesi o sudcoreane, alla ricerca di manodopera qualificata che parla la loro lingua: pure colossi occidentali quali Intel o BMW optano per il Liaoning.
Come riconosce però lo stesso Li in un colloquio con l’ambasciatore americano Clark T. Randt, il boom, da solo, non basta a colmare il crescente divario di redditi.
Nel tentativo di dare corpo, nel Liaoning, a quella “società armoniosa” che Hu invoca, Li fa costruire alloggi popolari per i meno abbienti, e cerca di contrastare la disoccupazione. Il presidente lo sostiene quasi paternamente, non lesinando alla provincia ingenti fondi governativi.
Desideroso di sbarazzarsi della nomea di leader debole e tentennante, Li usa poi il pugno di ferro contro la corruzione, vera bestia nera dei suoi concittadini. La parola d’ordine è “trasparenza”: la pubblica amministrazione è tenuta a operare in modo irreprensibile, e i funzionari corrotti devono essere puniti severamente. Per far capire ai suoi sottoposti che non scherza, organizza appositi tour in prigione, facendoli incontrare con i burocrati incarcerati.
Il buon risultato in Liaoning (nel 2008 il PIL della provincia crescerà di oltre il 13%) lo fa entrare nel 2007 nel comitato permanente dell’ufficio politico del comitato centrale del PCC (non è il solo: gli fanno compagnia He Guoqiang, Zhou Yongkang e, soprattutto, Xi Jinping).
Tuttavia il presidente Hu non riesce a persuadere gli altri leader del partito, specie il suo predecessore Jiang Zemin, che Li meriti di diventare, nel 2013, la nuova guida suprema: nonostante gli anni in Henan e Liaoning Li continua ad avere, a loro parere, «poca esperienza».
In realtà l’opposizione a Li nasce soprattutto dal desiderio della “cricca di Shanghai” di non rafforzare oltre misura la “fazione dei tuan pai” (gli ex membri della Lega giovanile comunista), facendo succedere a Hu il suo docile erede.
Inoltre i falchi del partito diffidano del liberalismo giovanile di Li. E i boss di province meridionali in pieno boom come il Guangdong non apprezzano troppo un tecnocrate che ha pochi legami con il sud costiero, e che da governatore del Liaoning è stato un competitore un po’ troppo in gamba. Senza contare che Li ha fama di essere perseguitato dalla cattiva sorte, e questo non piace al popolo.
Alla fine Li viene nominato (in un caratteristico compromesso alla cinese) vicepremier esecutivo, mentre è il “principino” Xi Jinping a ottenere la vicepresidenza.
Per Li è una sconfitta, non una disfatta: a dispetto di tutto è diventato, finalmente, uno dei signori dei Palazzi del Mare. E il suo nuovo ambito di competenze è davvero vasto: dovrà occuparsi di politiche macroeconomiche, energia, ambiente, sanità, sicurezza alimentare e lotta ai cambiamenti climatici. Ottiene pure la direzione di importanti comitati, incluso quello per la costruzione del Complesso della Diga delle Tre Gole.
Inizia a viaggiare con una maggior frequenza. Si reca in Medio Oriente, Asia centrale, Oceania: regioni importanti per Pechino, o a causa delle loro ingenti risorse naturali, o per via della loro (relativa) prossimità geografica.
Scoppia intanto la crisi finanziaria globale. La Cina, ormai seconda economia del pianeta, è chiamata a fare la sua parte per evitare una nuova Depressione. Sul palcoscenico internazionale il vicepremier Wang Qishan, preposto alle questioni finanziarie, brilla, tanto è vero che si parla di lui come possibile successore del premier Wen al posto di Li. Alla fine però è quest’ultimo a prevalere. Nel gennaio del 2010, infatti, è Li, non Wang, a rappresentare la RPC al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, deliziando i partecipanti occidentali con citazioni di Confucio e invidiabili statistiche sul boom cinese.
Ed è sempre lui, pochi mesi dopo, a correre a Dalian, in Liaoning, per accogliere con tutti gli onori il dittatore nordcoreano Kim Jong-il, giunto con il suo treno speciale in Cina a batter cassa. La visita si risolve in un mezzo fiasco, anche se non per colpa di Li: Kim, infuriato con i suoi parsimoniosi ospiti, torna a Pyongyang senza neppure assistere alla rappresentazione pechinese del romanzo d’epoca Qing “Il sogno della camera rossa”.
Miglior esito ha il viaggio di Li in un Vecchio Continente nella bufera del debito sovrano. In Spagna, la maggiore economia della cd “Europa periferica”, il vicepremier è accolto con comprensibile entusiasmo. Lui ricambia assicurando che Pechino continuerà a sostenere Madrid «nelle gioie e nei dolori».
Parallelamente comincia a far conoscere meglio il suo pensiero, all’estero e in patria.
Nel gennaio del 2011 pubblica un editoriale sulle pagine del quotidiano capitalista per eccellenza, il Financial Times. Nonostante un incipit letterario (un vezzo tipico dei leader cinesi), il vicepremier scrive da economista, diffondendosi sull’importanza della Cina per il benessere globale, e sul concetto di xiaokang (moderata prosperità): una teorizzazione denghiana che la fazione di Hu ha fatto propria, promettendo a tutti i cinesi una vita decente entro il 2020.
Sulla rivista di partito “Qiushi” Li sottolinea la necessità di varare più progetti di edilizia sociale, promuovere un’economia sostenibile, abbracciare la rivoluzione dell’energia pulita, proteggere l’ambiente: tutti temi molto popolari.
Come il premier Wen, amatissimo dalle masse, anche Li cerca di essere il volto umano del partito. Quando, nel maggio del 2008, il terremoto distrugge il Sichuan, lui è tra i primi a correre sul luogo del disastro. Un anno dopo è sempre lui, insieme con il mentore Hu, a partecipare alla cerimonia di commemorazione ufficiale.
Di sicuro Li è meno ingessato di tanti altri leader. Ama il contatto con le folle, sorride spesso, stringe mani ed è perfino disponibile a farsi fotografare mentre trangugia noodles istantanei.
Secondo Grahame Morton, alto funzionario del Ministero degli Esteri neozelandese, Li ha uno stile «alquanto accattivante», per certi versi simile a quello dei politici occidentali: affabile ed espansivo, lascia spazio ai sottoposti ed è anche autoironico.
Simile il giudizio espresso da Clark T. Randt, ambasciatore americano a Pechino tra il 2001 e il 2009. In un cablo reso pubblico da WikiLeaks, il diplomatico descrive Li come dotato di «un buon senso dello humour», «rilassato» e «sicuro di sé».
Sia Morton sia Randt concordano su un’altra cosa: Li parla decentemente l’inglese. Forse lo ha perfezionato grazie all’aiuto della moglie, Cheng Hong, che per anni ha insegnato inglese alla facoltà di lingue straniere della Capital University of Economics and Business (CUEB) di Pechino.
A differenza della moglie del vicepresidente Xi, la famosa cantante Peng Liyuan, la Cheng è poco conosciuta. Nata nel 1957 a Zhengzhou, capitale dell’Henan, è figlia di un dirigente della Lega giovanile comunista e di una giornalista della Xinhua. Dopo un periodo di lavoro in campagna durante la Rivoluzione culturale, entra alla prestigiosa università Qinghua, dove studia la lingua di Shakespeare. Incontra Li grazie a degli amici comuni, e se ne innamora subito. L’unione è benedetta dai genitori; il padre Jinrui, addirittura, è così entusiasta del brillante genero che lo sostiene attivamente nella carriera all’interno della Lega.
La Cheng conosce bene gli Stati Uniti: è stata visiting professor alla Brown University, nel Rhode Island, e ha tradotto in mandarino alcuni testi del naturalista americano John Burroughs.
Anche Li ha visitato l’America, rimanendo assai colpito dal rurale Oklahoma (non è difficile capire perché, dato il suo interesse per l’agricoltura). Dell’Europa ha invece apprezzato molto la Finlandia, verde e hi-tech.
Oltre a conoscere l’Occidente, entro certi limiti Li lo apprezza pure. La sua formazione giuridica ed economica, la sua discreta padronanza dell’inglese, il fatto stesso che sua figlia (dopo la laurea alla Beida) si sia iscritta a un college statunitense sono tutte testimonianze di ciò.
Non bisogna però considerare Li un paladino dei valori liberali anglosassoni. Non lo è mai stato, se non forse in gioventù, quando non era ancora nessuno.
Il vicepremier è sì un riformista, ma è prima di tutto un tecnocrate al servizio dello Stato e del partito, convinto che il sistema si cambi dall’interno, gradualmente. Per quanto possa essere ostile alle derive neomaoiste di una parte della nomenclatura, le sue priorità sono di natura economica e sociale, tipiche dei tuan pai: dalla correzione degli squilibri regionali a migliori politiche sociali, da una maggior tutela ambientale a un uso più massiccio di energie pulite, dal controllo dell’inflazione alla lotta alla corruzione.
E poi è un uomo accomodante, che ama far contenti tutti: una qualità indispensabile in un PCC che agisce sempre di più per consenso collettivo, ma anche un potente freno a ogni tentazione liberale.
Nel 2013 Li diventerà, salvo qualche colpo di scena imprevisto, il nuovo premier cinese. Potrà finalmente dimostrare di non essere una semplice copia-carbone del mentore Hu, come gli hanno sempre rinfacciato i critici. E che dello studente idealista della Beida qualcosa, in lui, ancora sopravvive.