La vittoria del “Sì” nel referendum che ha fermato il nucleare è stata un trionfo del tifo sull’opinione. Non è un giudizio di merito sull’opportunità di rifiutare l’atomo: è il modo in cui si è arrivati al risultato, che lascia interdetti. Forse è stato giusto così: per mobilitare milioni di elettori gli slogan contano più dei libri (non sia mai!).
Ritiratasi l’onda antinuclearista delle piazze e delle urne, sarebbe opportuno ora aprire un dibattito più meditato sul nostro futuro energetico. Negli ultimi mesi sui giornali hanno pensato di esprimersi in merito alla questione scrittori, cantanti, attori, e solo a tratti qualche studioso, negli spazi lasciati liberi dalle necessità elettorali. A uso e consumo del lettore, ci permettiamo qui di sottoporre una lista di punti fermi da considerare per una discussione più elaborata sull’energia. In fondo, ne va del futuro del nostro paese.
1 – Il nucleare non si può sostituire con le energie rinnovabili. Lo stiamo ripetendo allo spasimo. Il sole di notte non c’è, e il vento non tira sempre. Peraltro, uno dei picchi giornalieri di domanda elettrica è alla sera (verso le 22), quando il fotovoltaico è spento. Le biomasse funzionano solo su scala limitata, cioè se esistono “cicli naturali esistenti” cui ci si può collegare; altrimenti, occorre importare biomasse da bruciare dall’estero, che non è la soluzione ecologicamente migliore. Al posto dell’atomo occorre impiegare più centrali a gas e carbone, che si possono regolare a seconda delle necessità. Il gas produce la metà delle emissioni del carbone, che copre ancora il 17% del nostro mix elettrico. Per cui, i soldi che verranno “risparmiati” con lo stop al nucleare, potrebbero essere investiti nella riconversione degli impianti a carbone esistenti, verso il gas.
2 – Non è vero che la rete elettrica rinnovabile è più “leggera” di quella tradizionale. Si tratta di una tesi sorprendente ripresa anche da Repubblica (“I dieci motivi per votare ‘sì’ e dimenticarsi delle centrali”, 10 giugno 2011). Citiamo: «Grandi centrali nucleari presuppongono una rete di distribuzione molto concentrata, che unisce grossi centri di consumo a grossi centri di produzione. Tutto il contrario delle rinnovabili, che hanno bisogno di una rete (produzione – distribuzione) molto leggera e diffusa». Bene: anche se esistessero le rinnovabili “continue” (per ipotesi), creare una struttura nazionale a produzione e consumo punto-punto presupporrebbe investimenti mastodontici. Lo si vuole fare in futuro (progetto SuperSmartGrid), ma sostenere che costi meno della rete elettrica tradizionale è fuori dalla realtà.
3 – Nel panorama di sviluppo elettrico dobbiamo anche considerare quanto costa il giocattolo, e se il sacrificio vale il risultato. Non possiamo continuare a installare pannelli fotovoltaici in casa senza curarci di ciò che accade nel resto del mondo. È assurdo che la nostra bolletta elettrica debba sopportare, a partire da quest’anno, miliardi di euro di incentivi per il fotovoltaico (erano 800 milioni nel 2010), se poi consentiamo alla Cina di produrre l’85% della propria elettricità da sporchissime centrali al carbone. Peraltro, con l’elettricità al carbone la Cina produce i pannelli che rivende a noi. A Pechino faticano a credere alla nostra ingenuità.
4 – Più piccolo è il settore elettrico, meglio sta l’economia. Un grande progresso della società industrializzata a partire dal 1780 (con il carbone) e poi dal 1910 (con il petrolio) è stato dovuto proprio alla relativa riduzione degli addetti al settore energetico, in paragone alle dimensioni generali dell’economia. In questo modo, i produttori di beni “finali”, cioè destinati alla vendita, devono sopportare costi minori per l’energia che impiegano. Non è necessariamente un bene che ogni anno ci siano migliaia di impiegati in più nel settore delle forniture elettriche (ai critici: ho scritto “forniture”, non “produzione di apparecchiature”).
5 – Gli incentivi hanno senso solo se portano alla creazione di un’industria rinnovabile. Sembra ce ne dimentichiamo continuamente: i pannelli fotovoltaici sono ancora una tecnologia molto acerba, e correre adesso all’installazione riempirà le nostre campagne di specchi appena animati dalla scintilla dell’elettricità. I soldi spesi hanno senso se si crea una filiera fotovoltaica in grado di guidare ricerca seria. Ai fatti, importiamo il 98% del silicio trattato, e l’85% dei pannelli assemblati; dei soldi che diamo all’estero, i produttori di pannelli tedeschi investono solo il 2% degli utili (non dei ricavi, degli utili!) in ricerca e sviluppo. Attualmente un pannello costa poco meno di 3.000 euro al kW; perché il costo dell’elettricità da fotovoltaico sia pari a quello dell’elettricità tradizionale, dovrebbe costare circa 850 euro al kW. Non sarebbe il caso di direzionare meglio i soldi che spendiamo, verso la formazione di una filiera e verso la ricerca?
6 – Le rinnovabili distribuite hanno limiti di sviluppo, per cui bisognerà “concentrare” anche la produzione da sole e vento. I tedeschi e i francesi ci hanno preceduto, con i consorzi (rispettivamente) “Desertec” e “Medgrid”. Vogliono sfruttare le risorse rinnovabili del Mare del Nord, del Baltico e del Medio Oriente, connetterle con l’Europa e soddisfare fino al 45% della domanda elettrica continentale. Con la tecnologia del “solare a concentrazione” si potrà produrre elettricità anche di notte, visto che il calore in eccesso durante il giorno potrà essere immagazzinato in depositi ai sali di potassio. Alcune aziende italiane sono nei consorzi (Enel Green Power; Terna), ma perché dobbiamo andare al seguito di Parigi e Berlino? Proprio nel solare a concentrazione risiedono le maggiori opportunità per creare un’industria italiana, visto che il treno del fotovoltaico e dell’eolico lo abbiamo perso da tempo.
7 – Non andiamo molto lontano se continuiamo a tacciare i grandi progetti di “capitalismo speculativo”. È stato uno dei motivi di opposizione al nucleare: le grandi infrastrutture avvantaggiano i grandi gruppi (male), mentre le rinnovabili distribuiscono meglio la ricchezza (bene). Peccato che, alla fine, le rinnovabili abbiano avvantaggiato anche abili organizzazioni predatorie in Sud Italia, ricompensate dai felici pagatori di bollette italiani. Un paese serio sa impegnarsi per costruire grandi infrastrutture. Se non saranno le centrali nucleare (per fortuna), dovranno essere i grandi progetti di interconnessione di gas con la Russia (South Stream); con il Medio Oriente (l’improbabile Nabucco); con la Turchia (ITGI); con l’Algeria (Galsi). Se puntiamo alle rinnovabili, anche idee come Desertec non potranno essere realizzate nel cortile di casa, ma dovranno impegnare grandi gruppi aziendali per centinaia di miliardi di euro: 550 per il solo Desertec. Anche la “leggera” rete intelligente europea costerà miliardi. Saremo all’altezza?