Non solo Battisti, tremila italiani sono detenuti all’estero

Non solo Battisti, tremila italiani sono detenuti all’estero

Carlo Parlanti ha 47 anni. Dal 2006 è rinchiuso nel penitenziario statale di Avalon, nel deserto della California. Condannato a nove anni di reclusione per un reato probabilmente mai commesso. Cesare Battisti è più anziano di dieci anni. Nonostante una condanna all’ergastolo per quattro omicidi, da pochi giorni è a piede libero. La Corte Suprema brasiliana ha rigettato la richiesta di estradizione presentata dalla Farnesina e lo ha scarcerato. La vicenda dell’ex capo dei Proletari armati per il Comunismo ha scatenato un duro scontro diplomatico. La storia di Parlanti invece – come quella dei tremila connazionali detenuti all’estero – non la conosce quasi nessuno. A differenza di Battisti, l’Italia sembra essersi dimenticata di lui.

Accuse finte e prove inesistenti. Prima il processo farsa, poi una lunga condanna. Sembra di leggere il copione di Detenuto in attesa di giudizio il film di Nanni Loy del 1971. Ma è tutto vero. L’incubo di Carlo Parlanti inizia nel 1996, quando una grande multinazionale – la Dole Fresh Vegetables – gli offre un bel contratto oltreoceano. Per lui, giovane manager informatico, si tratta di un’occasione professionale e di vita. Così, senza pensarci troppo decide di trasferirsi negli Stati Uniti. In California si trova bene, il lavoro gli piace, ma dopo qualche anno gli viene nostalgia di casa.

Nel 2002 torna in Toscana. Non sa che nel frattempo è stato denunciato per violenza sessuale e sequestro di persona. A sporgere denuncia è Rebecca White. Una donna che conosce bene: è stata la sua fidanzata per qualche tempo, prima che lui interrompesse la relazione. Gli Stati Uniti emettono un mandato di cattura internazionale che stranamente in Italia non viene notificato. Nel 2004, la vita di Parlanti cambia per sempre. Durante un viaggio di lavoro in Irlanda, il suo aereo fa scalo a Dusseldorf. Bloccato alla dogana, viene arrestato dalle autorità tedesche. Senza riuscire a telefonare o ad avvertire il consolato italiano finisce in cella. Negli undici mesi di detenzione in Germania, i parenti presentano un ricorso alla Corte europea dei Diritti dell’uomo per permettere – almeno – che venga processato in Italia. Invece Carlo viene trasferito negli Stati Uniti.

Davanti alla corte di Ventura (Los Angeles) va in scena uno spettacolo incredibile. Nei dieci giorni del processo, Rebecca White si contraddice più volte. Il pm americano descrive Carlo ricorrendo ai peggiori stereotipi. Il “classico” italiano, amante del vino e delle belle donne. E, quindi, un violento. Alcune prove presentate dall’accusa sono palesemente false. Un referto medico, redatto due mesi dopo la presunta violenza, parla di lividi intorno agli occhi della donna. Ma le foto scattate dalla polizia un mese prima non evidenziano segni. «Come possono essere spuntati degli ematomi quasi due mesi dopo una violenza?» chiede Carlo. La polizia e i vicini di casa avevano già dichiarato di non aver notato segni di maltrattamento sulla donna.

Durante la prima permanenza in carcere le autorità statunitensi gli propongono di patteggiare. Se Carlo si dichiara colpevole di stupro, dopo pochi mesi potrà tornare a casa. «È il metodo usato per tutti – scrive il deputato Marco Zacchera, che si è occupato della vicenda – il 96 per cento dei processi in California finisce così e giudice e pubblico ministero (che sono cariche elettive popolari) possono citare con orgoglio le loro statistiche: “Abbiamo preso il il 96 per cento di rei confessi, il sistema funziona”».

Parlanti rifiuta. È innocente, non vuole prendersi la responsabilità di reati che non ha commesso. È convinto che il processo lo scagionerà, ma si sbaglia. La giuria popolare si convince della sua colpevolezza e il giudice lo condanna a nove anni per stupro e maltrattamenti. Per lui si aprono le porte del carcere di Avalon. Ottomila detenuti, il doppio del previsto, stipati in enormi celle da 400 persone. «Ho visitato carceri di massima sicurezza in Italia – scrive Zacchera, che qualche anno fa ha incontrato Parlanti – e ho visto il degrado di celle in Rwanda, Egitto e Bielorussia. Ma in qualche modo, rispetto ad Avalon, paiono quasi umane anche se tragiche, perché è il soprattutto il numero e la folla ad angosciarti».

Carlo inizia a stare male. Ha una grave forma di asma, soffre di epatite C. Una piorrea allo stato avanzato. Il consolato italiano a San Francisco interviene, richiama l’attenzione del capo dei servizi medici del carcere. Ma la situazione non cambia. Il detenuto è costretto a intraprendere uno sciopero della fame. Non bastano le interrogazioni parlamentari presentate nelle ultime due legislature alla Camera e al Senato. Né le assicurazione dei Governi – quello Prodi e quello Berlusconi – che giurano di seguire da vicino a vicenda. Dopo più di cinque anni Carlo Parlanti è ancora in carcere.
 

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