Un’Italia senza Silvio Berlusconi. Un paese che si definisce attorno a lui da 17 anni deve iniziare a pensarsi senza. Non sarà facile, neanche per chi lo detesta con ogni forza e lo considera la fonte di ogni male. Ma è doveroso: perché sono stati gli elettori italiani – non i giudici o la stampa straniera – a dire che la sua lunga stagione è avviata alla fine. Lo hanno fatto togliendogli di mano la sua Milano. Lo hanno confermato ieri e oggi portando al quorum un referendum, come non capitava dal 1995. Hanno detto così la loro voglia di partecipazione, di ritorno alla politica e alla “mano pubblica”. Per paradosso gli italiani con questo referendum – pensiamo ai quesiti sull’acqua – hanno detto sì a tutto ciò che l’Italia rifiutò come corrotto e sporco nei primi anni 90, quando la rottamazione del pentapartito e della Prima Repubblica spalancò la strada alle retoriche dell’efficienza privata di cui Berlusconi fu insieme portavoce e incarnazione. E hanno votato per un cambiamento, a prescindere dalla solidità e concretezza delle prospettive future.
Per 17 anni, in fondo, Silvio Berlusconi ci ha “risolto” molti problemi, non inferiori a quelli che ci ha creato. Ci ha consentito di non parlare di politica e di scelte strategiche. Ci ha evitato l’angoscia di problemi seri e strutturali per il nostro paese: un fisco iniquo; un sistema giudiziario lento e troppo spesso autoreferenziale; una burocrazia costosa e inefficiente; una nazione spaccata in due secondo tutti gli indicatori economici, finanziari, sociali e fiscali; un mercato del lavoro che iperprotegge chi già lavora ed espone oltremodo i più giovani. Sono solo alcune questioni, le principali, che Silvio Berlusconi impugnò fin dall’inizio della sua cavalcata, nel 1993, promettendo soluzioni che non sono mai arrivate. La resa è arrivata solo di recente, da Bruno Vespa, quando ha sfiorato addirittura l’autocritica: “nessuno avrebbe potuto cambiare questo paese”. Quindi, nemmeno lui. Ma quei nodi restano lì, sono tutti da sciogliere: e la rivoluzione liberale promessa e mai mantenuta non è oggi meno attuale, né meno necessaria.
Con la sua presenza invadente, con la forza del carisma e del consenso che solo oggi conosce la prima vera flessione in termini assoluti, Berlusconi ha imposto al paese e al dibattito pubblico un unico tema di agenda: se stesso. Di lui abbiamo discusso, parlato, saputo, immaginato, detto e scritto. Lo abbiamo amato, odiato, votato o abbiamo votato chiunque, purché non fosse lui o una sua espressione. Abbiamo associato a lui ogni male italiano – la mafia, la furberia, l’infedeltà estrema – o ogni bene possibile – il successo meritato, il talento, il fascino, la genialità. E così, insieme a lui e ai suoi oppositori professionisti, ci siamo reimmersi in un clima di scontro infinito che sa di anni 70: un decennio in cui molti di noi sono solo nati.
Questo clima, adesso che l’era di Berlusconi intravvede il tramonto, non ci mancherà. Quel che ci manca, adesso, è avere di fronte idee, schieramenti, rappresentanze di interessi, visione e leadership vere. Ci serve capire insomma in modo chiaro chi si candida a guidare il paese domani, in nome di quale programma, con che idea di paese. Vale per una destra che deve a lui, a Silvio Berlusconi, di esistere e di essere diventata forza di governo. E vale per una sinistra che allo stesso modo non avrà vita facile: e dovrà definirsi rispetto al paese, ai suoi bisogni e alle sue pulsioni, e non rispetto a Berlusconi.
L’ultima volta che l’Italia si trovò in mezzo a un guado simile a questo fu proprio nei primi anni novanta. Nell’assenza di una visione precisa e dalla sottovalutazione della voglia di cambiamento, tra scrollate di spalle e sorrisini di sufficienza di chi credeva che le manovre di Palazzo potessero arginare tutto e garantire ai diversi poteri una spartizione tranquilla, alla fine, emerse proprio Silvio Berlusconi. Mai come adesso che si avvicina il suo declino, la memoria della sua ascesa diventa preziosa per pensare davvero l’Italia di domani.