Sull’acqua pubblica le banche tifano per l’astensionismo. O per una vittoria dei no. Chi investe nell’acqua ha bisogno di norme chiare, dicono. Il primi due quesiti referendari, sull’obbligo di affidare via gara d’appalto la gestione dei servizi pubblici locali a società di diritto privato, e sull’abolizione del tetto della remunerazione garantita a copertura degli investimenti, potrebbero generare incertezza in un comparto la cui legislazione è già piuttosto confusa. Prima di tutto per via della mancanza di un’authority indipendente come per elettricità e gas. In secondo luogo perché il calcolo delle tariffe del servizio idrico integrato, in base alla legge Galli (poi modificata dal decreto 152 del 2006), avviene ogni tre anni a livello di Autorità d’ambito (Ambiti territoriali ottimali), consorzi che a loro volta comprendono un numero variabile di Comuni parte di uno stesso bacino idrografico. Proprio i Comuni, emblematico il caso di Roma, spesso sono gli azionisti di maggioranza delle società di gestione delle risorse idriche.
Se il primo quesito interessa le condizioni di rinnovo degli affidamenti alle società quotate a partecipazione pubblica, che prevedono la riduzione del peso del pubblico nell’azionariato al 40% delle quote entro il 30 giugno 2013 e al 30% entro il 2015, in ottica puramente finanziaria è il secondo quesito, l’oggetto della riflessione degli analisti e operatori di Piazza Affari. Ovvero, quello relativo all’adeguata remunerazione del capitale investito , In questi giorni, stanno provando a calcolare l’impatto che l’abrogazione della remunerazione forfettaria (7%) avrebbe sul conto economico, ma al momento senza troppo successo.
La confusione sul tema emerge con chiarezza in un rapporto di Fitch diffuso la scorsa settimana. «La remunerazione del capitale investito dalle società italiane che operano in concessione potrebbe essere minata dal referendum», afferma l’agenzia di rating. «La scarsa trasparenza della regolamentazione del settore sarà aggravata da un periodo di ulteriore incertezza che può scaturire dal successo dei quesiti referendari», spiega a Linkiesta Francesca Fraulo, direttore della divisione Energia, utility e regolamentazione della società di rating. «Ciò rappresenta un problema per i finanziamenti in essere e ancor più per quelli a venire, perché le banche vorranno chiarezza prima di aumentare l’esposizione verso un settore che, da un punto di vista regolamentare, non è tutelato allo stesso modo di elettricità e gas».
In una recente intervista, l’amministratore delegato di Acea, utility che gestisce l’acqua capitolina, ha sottolineato: «Il referendum dice che chi investe non deve guadagnare. Se vincerà il sì, succederà che chi deve investire non andrà a chiedere il supporto delle banche, perché le banche chiedono interessi che la tariffa non ripagherebbe. Si bloccheranno gli investimenti, sarà un caos inenarrabile». Traducendo la prosa in cifre, per Acea significa 600 milioni di euro di spesa per investimenti bloccati.
Secondo i calcoli di una primaria banca italiana, la percentuale di margine operativo lordo (Ebitda) delle società a più elevata capitalizzazione del settore, che pertiene alla divisione acqua, è pari al 50% per Acea, al 20% per Hera, al 19% per Iren e soltanto all’1% per A2a. Prendendo come riferimento il bilancio 2010, il sì al secondo quesito “eroderebbe” quindi 10,4 milioni di euro per A2a, 133,3 milioni di euro per Acea, 121,4 milioni per Hera e 114,7 milioni per Iren. Totale: 380 milioni di euro circa.
Volendo calcolare il livello globale degli investimenti dei principali operatori dell’acqua italiana, la utility nordestina Acegas-Aps, quotata sul Ftse Small Cap, ha impegnato 27,2 milioni di euro nel 2010 e 4,7 nel primo trimestre 2011 e ha venduto 53,3 milioni di metri cubi di acqua. Il piano industriale 2008-2010 prevedeva 250 milioni di euro di investimenti complessivi. Per Iren (attiva in Piemonte, Liguria e Emilia) gli investimenti netti sul ciclo idrico integrato sono saliti a 834 milioni di euro nel 2010, per un volume di 188 milioni di metri cubi d’acqua venduti l’anno scorso, mentre sul piano industriale 2011-2015 è stato messo sul piatto un 1,1 miliardi di euro di investimenti. Il piano industriale 2010-2014 di Hera prevede invece la distribuzione di un volume pari a 259 milioni di metri cubi d’acqua entro il 2014 e 522 milioni di euro di spesa per investimenti, di cui la metà soltanto per il mantenimento della rete.
Il totale degli investimenti da qui al 2015 supera i 2 miliardi e mezzo di euro. Cifre difficilmente affrontabili dai Comuni, dagli “Ato” o da chi ne assorbirà i compiti (probabilmente le Province). L’indebitamento pubblico italiano non consente grande libertà di manovra, soprattutto in un momento in cui è alta la percezione del rischio degli emittenti governativi, ma anche per i paletti fissati dal patto di stabilità europeo.
Qualora vincesse il sì, osservano alcuni, un possibile canale di finanziamento potrebbe essere la Cassa depositi e prestiti. Peccato che Franco Bassanini, presidente dell’ente e membro del “Comitato per il No”, abbia affermato in più occasioni che i finanziamenti alle società municipali che gestiscono i servizi idrici avrebbero un impatto sul debito pubblico. «Noi gestiamo il risparmio delle famiglie: possiamo fare dei prestiti ma se eroghiamo un mutuo a un ente pubblico va tutto sul debito pubblico», ha precisato. «Nell’elenco Istat dei soggetti della Pubblica amministrazione che rientrano nel conteggio del debito pubblico la Cdp non compare, quindi nemmeno Acquedotto Pugliese, seppure sottoposto al controllo della Corte dei Conti, ha un impatto sul debito italiano», ha però ribattuto Luca Martinelli, autore del saggio “L’acqua è una merce”, edito da Altraeconomia.
La possibilità che si arrivi al quorum è aumentata da quando la Cassazione ha ritenuto valido il quesito sul nucleare, che potrebbe quindi incanalare l’onda emotiva post-Fukushima, rivitalizzando la contrarietà già emersa nel 1987 con un analogo referendum.