Il monito è di quelli da mozzare il fiato. «Se non alzate il tetto del debito entro il 4 agosto, il downgrade da AAA a B+ arriverà». Così Fitch ha minacciato gli Stati Uniti. Una minaccia ben peggiore di quella di Standard & Poor’s, che modificò l’outlook americano poche settimane fa. Intanto, il termine default non è più solo un tabù, ma è ormai entrato nel dibattito interno. I repubblicani spingono per un soft default, mentre il presidente della Federal Reserve di St. Louis, James Bullard, è più tranchant: «È questo il più grande rischio globale esistente».
Il debito americano ha già da molte settimane superato il debt ceiling, il tetto del debito fissato dal Congresso a quota 14.294 miliardi di dollari. Ora siamo a 14.419 miliardi e il conto non si ferma. Da qui, il rischio, nemmeno troppo lontano, che si possa arrivare a un punto morto, cioè il default. Fitch non ha usato mezzi termini: o si raggiunge un accordo o scatta il declassamento del giudizio sul debito sovrano. E lo shock non deriva solamente da questa notizia, ma anche dall’entità del downgrade stesso, dalla tripla A a B+, quello che era stato dato alla Grecia, sempre da Fitch, lo scorso 20 maggio. Per la maggiore economia mondiale, un’ecatombe. Per tutti gli altri, idem.
Non deve stupire l’azione di Fitch. Il debito pubblico statunitense è immenso. Bullard, uno dei banchieri centrali più ammirati della Fed, non si nasconde dietro a elaborate metafore. «La situazione fiscale degli Stati Uniti, se non gestita correttamente, potrebbe trasformarsi in uno shock macroeconomico globale», ha detto ieri Bullard. Ma non solo. Il numero uno della Fed di St. Louis ha anche attaccato chi ha parlato di una parziale ristrutturazione: «L’idea che gli Stati Uniti possano minacciare un fallimento è incredibilmente pericolosa». Eppure, guardando i dati, lo scenario non è così remoto.
Due giorni fa Usa Today ha messo in prima pagina tutti i debiti degli americani. 62.000 miliardi di dollari, fra i programmi Medicare (24.800 miliardi), Social security (21.400 miliardi), debito federale (9.400 miliardi), pensioni militari (3.600 miliardi), pensioni dei dipendenti pubblici (2.000 miliardi) e obbligazioni degli enti locali (5.200 miliardi). Una montagna di denaro che rende gli Stati Uniti il paese con più creditori al mondo. Un concetto, questo, ripreso nemmeno troppo sottovoce anche da Bill Gross, numero uno di Pimco, il maggiore fondo obbligazionario esistente. «Gli Usa sono un Paese che è stato profondamente cambiato dalla crisi finanziaria e con loro è mutato anche il mondo in cui operano», ha detto Gross nel corso del 2008, subito dopo il crac di Lehman Brothers.
La partita del debt ceiling ora si gioca sul piano politico. Da un lato il presidente Barack Obama ha già spiegato che l’unica soluzione per uscire da questa empasse è quello di adottare dei tagli alla spesa pubblica e ai programmi assistenziali. Ma non c’è accordo sulle modalità degli stessi. Ed ecco quindi che, di fronte a un Obama remissivo e tentennante, i falchi dei repubblicani rilanciano l’idea del soft default. Una soluzione, quest’ultima, che ha fatto infuriare la Cina, che detiene 1.152 miliardi di dollari di debito statunitense. Pronta è stata la risposta di Pechino, il maggior creditore di Washington. «Non dovete giocare con il fuoco», è stata la reazione di Li Daokui, consigliere della People’s Bank of China. Ma è chiaro che ora il braccio di ferro è tutto interno agli Stati Uniti.
La minaccia di Fitch, nonostante abbia gettato una pesante ombra sul debito americano, è stata letta come un’esortazione politica. Il Wall Street Journal parla di «mossa volta a sbloccare una situazione che pare irrisolvibile». Intanto però, sono sempre di più i Paesi che stanno limitando la propria esposizione sugli Stati Uniti. Uno di questi è il Giappone, che oggi ha dichiarato di aver mutato la propria strategia d’investimento, diminuendo la quantità di Treasury in portafoglio. Si tratta di un segnale importante di quella New normal predetta da Pimco. Ma è anche il simbolo che non esiste più una certezza al mondo.
Con il fallimento di Lehman Brothers si è amplificato un processo iniziato col crollo del mercato immobiliare nel finale del 2005. A seguito della peggiore crisi finanziaria dalla Seconda guerra mondiale, Washington ha dovuto reagire con forza per far riprendere l’economia. Sono stati iniettati svariati trilioni di dollari nei mercati finanziari, anche e soprattutto attraverso misure straordinarie di liquidità. È il caso dei vari Tarp (Troubled asset relief program), Talf (Term asset-backed securities loan facility), QE (Quantitative easing), più tutti i programmi di acquisto di titoli di Stato promossi dalla Fed. A quattro anni dallo scoppio della crisi, l’America non solo non cresce al ritmo che vorrebbe, ma si trova anche con il problema del debito. Un pericolo in più per il mondo post Lehman Brothers.