Cari scettici, il Brasile è la Germania del Sudamerica

Cari scettici, il Brasile è la Germania del Sudamerica

Una delle nazioni più interessanti dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India, Cina) è senza dubbio il Brasile. Leggo sulla stampa nazionale, e qualche volta anche su quella internazionale, dei dubbi sulla sua possibilità di crescita di lunga durata. Soprattutto per l’alta valutazione della sua moneta, il real, e per il tasso d’inflazione assai alto, inusuale in un mondo in cui la tendenza è alla deflazione strisciante. Il Brasile è una eccezione nel novero dei Paesi che stanno acquistando sempre più importanza nei sistemi di pesi e di rilevanze nel sistema di potere economico-politico mondiale. In primo luogo il Brasile continua a esprimere, attraverso le sue classi dirigenti, una visione imperiale.

Gli osservatori non riflettono mai sul fatto decisivo che a ciò ha dato vita: l’Impero spagnolo si dissolse all’ inizio del XIX secolo sotto l’impulso delle rivolte massoniche e borghesi che sconvolsero il vecchio dominio in una serie di lotte tra i terratenientes e le borghesie delle coste e dell’interno, tra gli allevatori e i commercianti, tra gli eredi delle ricchezze minerarie e coloro che vedevano nella conquista delle immense distese del Sud continentale il futuro delle nascenti statualità. Esse s’innalzarono con il ferro e il fuoco e con il principio di nazionalità rivendicato prima che le nazioni stesse si formassero come unità di destino. In ogni caso l’Impero spagnolo si frantumò e le guerre intestine continuarono di fatto sino al XX secolo. Nulla di tutto ciò accadde all’Impero portoghese.

La monarchia che fuggì dal Portogallo sotto l’urto della violenza napoleonica all’inizio dell’Ottocento, mise le sua solide radici nel Brasile coloniale e il suo potere centralizzato continuò a dar risultati meravigliosi in quanto radicamento delle classi dirigenti nella nazione anche quando il Brasile divenne una repubblica. I funzionari della colonia portoghese, del resto, furono sempre formati, sino all’avvento napoleonico, direttamente in Portogallo, a Coimbra: portarono con sé un orientamento razional-legale assai più spiccato di quelli delle colonie spagnole, formate nei vicereami coloniali e privi di una cultura unitaria dell’amministrazione.

Questa eredità brasiliana fonda la sua potenza demografica e costituisce una delle sue forze fondamentali allorquando, come oggi, la crescita avviene secondo i canoni di un’economia che non ha mai ceduto alle sirene del Washington Consensus, anche durante la ventennale (dal 1964 al 1984) dittatura militare. Grandi banche di Stato e grandi industrie di Stato hanno sempre convissuto con la formazione di una borghesia che ha accolto nel suo seno e trasformato come orientamento all’azione anche parte dei vecchi possessori latifondistici, diffondendo un capitalismo nelle campagne che è una sorta di eccezione per tutta l’America del Sud. Vi è un punto di forza nell’economia brasiliana a cui nessuno pone mai attenzione. I suoi circa duecento milioni di abitanti, di cui l’86% circa è urbanizzato, vivono solo per la metà in grandi città (San Paolo e Rio de Janeiro) e si dividono per l’altra metà in città medio piccole con moltissimi comuni non superiori ai duecento mila abitanti.

La teoria di Max Weber, secondo la quale l’Europa doveva il suo meraviglioso sviluppo comparato alla formazione delle borghesie urbane che facevano sì che il vecchio continente fosse emerso come una forza tellurica dal vecchio regime superando nel Settecento l’Asia nella produzione del Pil mondiale, trova in Brasile una conferma impressionante. La gran parte dell’industria brasiliana, che ha certo grandi giganti come, per esempio, Petrobras (oil&gas) e Pão de Açúcar (grande distribuzione), la gran parte dell’industria brasiliana – tra cui ci sono imprese tra le prime cinquanta al mondo nella statistica del Financial Times – si fonda su una moltitudine di grandi e medie imprese disperse nel territorio immenso del Brasile, sorrette da grandi banche come Banco Itaú, per ricordarne una, ma anche da una miriade di banche locali che rivaleggiano con quelle statali per finanziare un’industria che, a differenza di quella sud americana, è forte per livelli di capitalizzazione.

A tutto ciò vanno aggiunti i successi della presidenza Lula per dare la terra ai contadini e, prima ancora le lotte del “movimento dei contadini senza terra”, degli affittuari, dei braccianti, per formare la piccola e media borghesia contadina, che hanno creato un diffuso e forte mercato interno di cui troppo spesso non si ha contezza, abbacinati dalle ancora enormi differenze territoriali che si addensano in un continente immenso come il Paese lusitano. Vi è poi un altro fattore fondamentale: la buona politica. Comincia da molto lontano. Lo stesso populismo brasiliano ha avuto connotati diversi da quello peronista argentino o da quello peruviano. João Goulart, per esempio, che governò in Brasile negli anni Sessanta del Novecento, fu un populista “sviluppatore” che i militari abbatterono per le sua istanze sociali, così come le oligarchie infransero il sogno “desarrolista” di Getúlio Vargas vent’anni anni prima, costringendolo al suicidio.

Brasile: nazione di grandi tragedie e di grandi sofferenze. Ma addirittura la stessa dittatura militare fu diversa dalle altre del Cono Sur: rivolta allo sviluppo e non alla stagnazione e con gradi di violenza molto minori di quelli cileni e argentini, dove i carnefici superarono i nazisti per efferatezza. E posso affermarlo proprio io, che ho avuto uno dei miei più vecchi amici, viceministro dell’energia nella metà degli anni Settanta, ucciso dai militari. Ma la buona politica arriva in Brasile con Fernando Cardoso e Lula Da Silva. Il primo inizia una politica di coalizione parlamentare (il suo partito socialdemocratico arrivava al 5% circa dei voti) con scaltrezza, intelligenza e con la determinazione necessaria per abbattere l’inflazione e stabilizzare il cambio.

Lula fa il miracolo di garantire – con un partito socialista con il 28% dei voti (fatto inconsueto per il Brasile) – una lunga stabilità ricca di riforme e di creazione delle condizioni macroeconomiche per la crescita, sfidando l’ortodossia neoliberista, con un amalgama di economia mista, creazione di appoderamenti contadini, politiche industriali attive da stato imprenditore e, per finire, una politica estera a tutto campo in grado di sfruttare appieno il boom delle commodities, in una sorta di miracolo economico brasiliano che Dilma Rousseff non potrà che continuare. E questo nonostante il perdurare della crisi economica mondiale che ha solo lambito da lontano il grande Paese destinato a divenire la Germania dell’America del Sud.

*Professore ordinario di Storia Economica, Università statale di Milano

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