Centotrenta anni fa, il 7 luglio 1881, La storia di un burattino – quel testo che noi oggi conosciamo come Pinocchio – cominciò a uscire a puntate sul “Fanfulla della Domenica”, supplemento letterario del quotidiano “Il Fanfulla”. Da allora non ha smesso di circolare.
Forse insieme a Cuore, Pinocchio è il testo più diffuso della letteratura italiana a livello mondiale. Ma sarebbe improprio confrontarli. Collodi, al di là di tutto, non si sarebbe mai fatto trascinare nelle passioni della nuova tecnica o dallo stile moderno come De Amicis, che aveva passioni come il calcio o il cinema. Ancora, il padre del burattino più famoso d’Italia si sarebbe tenuto lontano sempre dai luoghi dell’inquietudine contemporanea come i manicomi, forse i luoghi, insieme alle carceri, più significativi della disperazione sociale che De Amicis ebbe la forza di mettere al centro di molti suoi racconti, unico nella letteratura italiana della Italia liberale.
Anche per questo l’immagine di scavezzacollo di Pinocchio va molto ridimensionata. Ma non per questo va sottovalutata perché in quel testo e nel suo profilo non c’è “altra Italia”. Nelle molte vite di Pinocchio c’è prima di tutto l’infanzia di Carlo Lorenzini, Collodi. Ovvero dell’autore. Nato a Firenze nel 1826 da Domenico Lorenzini, cuoco in casa del marchese Garzoni Venturi e da Angiolina Orzali, figlia del fattore nella zona di Pescaia, in Valdinievole, il luogo per eccellenza della mezzadria perfetta. Sono, quelle, le terre cantata da Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi. Sismondi, convinto che lo sviluppo passasse per inclusione delle classi basse e povere, e che questa dovesse avvenire perché il mondo di sopra, dei ricchi e dei nobili, degli aristocratici della terra, allungasse lo sguardo oltre se stesso e guardasse al mondo della famiglia contadina favorendone la crescita e l’elevazione sociale.
Sismondi è infatti il riferimento fondamentale per il gruppo milanese dei “Conciliatori”, per il gruppo de “L’Antologia” di Firenze e per i soci della Società agraria di Bologna, tutti e tre attenti all’esperienza della mezzadria come modello di governo, non solo “della terra”, ma anche “degli uomini”. Un profilo che rende la terra e la figura del fattore elementi centrali nell’immaginario politico dei risorgimentali italiani che, non a caso, proprio dalla grande proprietà terriera e dall’esperienza della mezzadria tireranno fuori il nerbo strutturale della classe di governo del Risorgimento.
Questo intreccio di umori e di radici contadine entra nella visione di Collodi, ben sapendo che da quella condizione non si evade né si fugge, ma si eredita uno stato e forse si pone la base per il miglioramento.
E’ una filosofia in cui non c’è la sconfitta o la dimensione del fatalismo che accompagna nello stesso momento la scrittura di Giovanni Verga e dei suoi “vinti” per eccellenza rappresentata nella saga de I Malavoglia che, peraltro, esce nello stesso anno di Storia di un burattino. C’è insomma una sorta di doppio percorso nella storia di Pinocchio, tra una fase che si potrebbe chiamare di decomposizione e di discesa e che termina al capitolo XV, quando Pinocchio viene impiccato dai briganti che vogliono i suoi soldi e poi una seconda in cui con molte disavventure e dovendo superare molte prove dove “si perde” e poi “si ritrova” lentamente Pinocchio “torna a casa”.
Che cosa rimane a noi di tutta la storia? Esattamente la dimensione del ritorno. E’ una condizione in cui non è contemplata la fuga definitiva da casa e che ha una forte vena religiosa, sulla scorta di Sismondi, caratterizzato dal rifiuto del carattere temporale del peso e del ruolo della Chiesa. Nel 1848, quando si pone il problema della “scelta”, Collodi non esiterà a schierarsi coi laici, e ad arruolarsi e a ritrovarsi a combattere a Curtatone e Montanara. Rifarà ancora quella scelta nel 1859, arruolandosi nel Reggimento Cavalleggeri di Novara dell’esercito piemontese e partecipando da soldato semplice alla seconda Guerra d’Indipendenza).
Ma non è tanto o solo questo. Quel ritorno dice di un’altra cosa: ovvero che della cattiveria o del terrifico rappresentato a ciò che sta “fuori casa” e quindi della necessità di proteggersi o di tutelarsi. E’ una cattiveria che prima di tutto nasce dalla miseria (anche per questo tutte le figure contadine che compaiono sono caratterizzate non solo dalla violenza, ma anche dall’insensibilità). Ma è anche una cattiveria che si raffigura nelle figure della modernità: quella del diritto rappresentata dal giudice–gorilla del capitolo XIX (che condanna Pinocchio perché è stato derubato) e quella dei moderni profittatori rappresentati dal gatto e dalla volpe.
Una volta raggiunta l’Unità il problema diventa come si costruisce un soggetto nazionale ovvero come si dà corpo a un attore collettivo. L’obiettivo o il sogno è l’ordine e laddove quell’ordine sia infranto o seriamente compromesso, impegnarsi per ricostruire una filiera interrotta. Avendo come obiettivo dichiarato il raggiungimento dell’alba, comunque della luce. Forse non è un caso che tutta la vicenda di Pinocchio, le sue disavventure, i suoi guai, avvengano sempre di notte o comunque al buio.
“Che luce sia”. Potrebbe essere lo slogan. Ma non ha eco nella vicenda. Quella redenzione, se così si può chiamare, avviene senza il conforto della Provvidenza e comunque senza l’aiuto di una fede. Seguendo una via laica, insomma. Siamo così certi Carlo Lorenzini non abbia niente da dirci?