Gli investitori mordono l’Italia alle calcagna, la Consob corre ai ripari. Il regolatore italiano ieri in tarda serata ha sancito l’obbligo di comunicazione all’authority delle operazioni di vendita allo scoperto (“short selling”) – senza cioè averne l’effettivo possesso – qualora superino la soglia dello 0,2% del capitale dell’emittente, ponendo un secondo obbligo «per ogni variazione pari o superiore allo 0,1% del capitale». Esempio: una banca presta a un trader alcuni titoli, che li vende con l’impegno di riacquistarli entro una data scadenza, pagando un interesse per il prestito. Il guadagno è sulla differenza tra il prezzo di vendita e di riacquisto.
Una misura per limitare le vendite sulla piazza italiana – meno 4,12% alle 16.00 – che altri Paesi europei hanno già adottato in passato, nel tentativo di alzare barricate regolamentari contro la spirale ribassista dei listini e l’incremento degli interessi da pagare sui titoli di debito, e arginare così la crisi dei debiti sovrani. Tuttavia, la stessa politica che, con i rispettivi regolatori nazionali, corre ai ripari, a livello comunitario continua a litigare, favorendo così l’arbitraggio regolamentare da un Paese all’altro dell’Eurozona.
Le regole proposte dalla Commissione europea nel settembre 2010, infatti, sono ancora in attesa di una discussione parlamentare a Bruxelles. Al via libera franco-tedesco, si è opposta l’Italia, il grande debitore europeo, ma anche la Spagna, l’Olanda, la Svezia e la Slovenia, oltre ovviamente all’Inghilterra. Il motivo è semplice: si temeva che la fuga degli investitori potesse diminuire la liquidità nei rispettivi mercati, rendendo così più difficoltoso il rifinanziamento del debito. Nello specifico, la bozza della Commissione prevedeva obblighi di notifica identici a quelli approvati ieri notte dalla Consob (vedi a pag 22 del documento alla voce “Transparency of net short positions”) più un ulteriore obbligo di rendere note al mercato le posizioni corte nette sopra lo 0,5% del capitale della compagnia target e ogni variazione superiore allo 0,1% della soglia precedente. L’impianto normativo prevedeva inoltre che l’Esma, l’organismo che riunisce i regolatori dei singoli Stati Ue, potesse bandire il naked short selling, ovvero la vendita senza ottenere preventivamente in prestito i titoli, qualora i ribassi siano superiori al 10 per cento.
Qualche mese prima, a febbraio 2010, l’Esma stessa aveva pubblicato le sue raccomandazioni in materia, le stesse inserite successivamente nel provvedimento della Commissione Ue, ratificate in successione un anno fa da Francia, Germania – a fine gennaio la BaFin ha esteso al 2012 gli obblighi di notifica delle posizioni corte nette a una serie di titoli del settore bancario e assicurativo; agli operatori è inoltre richiesta la copertura delle posizioni corte prima di dare l’ordine di vendita – Spagna, dove lo short selling naked è proibito, mentre in Inghilterra esiste solo un obbligo di disclosure delle posizioni corte nette su alcuni titoli del settore finanziario.
Discorso parzialmente diverso per la Grecia. L’Authority di Atene ha vietato lo short selling nell’aprile 2010, per poi reintrodurlo (mantenendo il divieto al naked short selling) lo scorso agosto a patto di liquidare gli scambi tre giorni dopo le operazioni di vendita o acquisto. «In Europa oggi è ancora possibile effettuare qualsiasi forma di arbitraggio, con relativi costi e rischi» spiega Donato Masciandaro, ordinario di Economia della regolamentazione finanziaria alla Bocconi di Milano, che osserva: «attualmente non esiste ancora un sistema normativo univoco e valido per tutti a livello comunitario». E, senza regole comuni, si rischiano distorsioni sistemiche che contribuiscono al contagio.
Un capitolo a parte, ma ugualmente rilevante, riguarda l’arbitraggio nello shadow banking, un sistema parallelo “deregolamentato” per le contrattazioni, e nei derivati over the counter, cioè scambiati su piattaforme non regolamentate, come la piattaforma Sigma X, della banca d’affari Goldman Sachs. Ieri Jean-Claude Trichet ha chiesto una maggiore stretta sul sistema bancario ombra utilizzato dai veicoli d’investimento delle banche d’affari e dei fondi hedge. Secondo i dati diffusi stamani da Markit, da inizio anno a oggi il valore dei Cds (derivati che servono a proteggersi dal rischio di default di un’emittente, scambiati over the counter) su Banca Mps ha toccato i 1,4 miliardi di euro nozionali, mentre in Borsa l’istituto senese ne capitalizza 3,1. Cifre che rendono bene l’idea delle somme in gioco.