«E le pensioni dei politici, intanto, restano d’oro»

«E le pensioni dei politici, intanto, restano d’oro»

La manovra finanziaria, su cui il Governo ha posto la fiducia, è stata approvata in Senato. Tra i molti tagli previsti nel provvedimento, uno dei più controversi riguarda la stretta sulle pensioni. Elsa Fornero, ordinario di Economia all’Università di Torino e vicepresidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, spiega a Linkiesta quali sono le implicazioni delle nuove misure di quali interventi necessita il sistema previdenziale italiano per essere più efficiente.

Partiamo dalla prima misura, il blocco dell’adeguamento delle pensioni al costo della vita: complessivamente, i risparmi dal prossimo anno al 2014 sono pari a circa 1,8 miliardi di euro. Un taglio efficace?
Prima di rispondere, occorre fare una premessa.

Prego.
Ritengo sia mancato il coraggio politico, per via di un un veto posto dalla Lega, di varare una misura che sarebbe stata equa e accettata dai sindacati: aumentare da subito, e non dal 2020 in modo gradualissimo, l’età di pensionamento delle donne. Oggi, eccezion fatta per il pubblico impiego, dove le dipendenti sono equiparate agli uomini in virtù dell’adeguamento a una sentenza della Corte di giustizia europea, nel settore privato si continuano a mantenere cinque anni di differenza (60 per le donne e 65 per gli uomini) rispetto ai lavoratori. Alla base di tutto c’è la presunzione che le donne nel pubblico impiego lavorino meno, ma il problema è un altro: bisogna farle lavorare di più aumentando la loro produttività, rispetto a sostenere che il loro lavoro sia più leggero se confrontato con il settore privato, come nelle banche, nell’industria o nel commercio. Si tratta di un’occasione mancata per adottare un provvedimento importante in termini di risparmio per lo Stato.

Torniamo al non adeguamento all’inflazione. Tito Boeri e Agar Brugiavini hanno calcolato su Lavoce.info che con un’indicizzazione delle pensioni ai tassi di inflazione effettivi, si risparmierebbero 550 milioni nel 2012 e di quasi un miliardo nel 2013.
Sospendere l’indicizzazione vuol dire fare in modo che pensione non segua costo della vita, quindi infliggere una perdita tanto maggiore in termini reali tanto più alta è l’inflazione. Per livelli di pensione fino a tre volte il minimo non cambia nulla, tra 3 e 5 prima la soglia era al 45% e ora passa al 70%, quelle superiori a 5 volte il minimo perdono la rivalutazione. Per le persone che sono andate in pensione in questi anni e che stanno per andare in pensione la misura è amara, ma bisogna riconoscere che le pensioni in questi anni state pagate sia con i contributi in senso stretto, che attraverso norme particolarmente generose. Oggi lo Stato si riprende quello che ha concesso. Sono d’accordo con Brugiavini e Boeri, ma l’indicizzazione al Pil significa agganciare il loro valore sia all’inflazione che alla produttività: e ciò deve riguardare le pensioni in regime contributivo, non retributivo. Le pensioni contributive entreranno in vigore, in seguito alla riforma del’95, in maniera piena al 2030, e saranno modulate in modo più flessibile. Ad esempio, se una persona ha accumulato 100 di capitale, questo sarà restituito durante la vita da pensionato sulla base della longevità della coorte, ma che lo Stato lo eroghi in modo crescente nel tempo in termini reali, o in modo costante, non fa differenza, come una compagnia di assicurazione che trasforma il capitale in rendita, ma è il cliente a scegliere se con un profilo crescente o costante. Se però consideriamo le pensioni retributive, l’indicizzazione al Pil è più discutibile. Esisteva, ma è stata eliminata da Amato con la riforma del ’92, ed è stata la misura che più ha permesso di abbassare in termini di Pil la spesa pensionistica. Il problema è però un altro: abbiamo un sistema eccessivamente generoso che redistribuisce le risorse in maniera sbagliata.

Il contributo di solidarietà per le pensioni d’oro (5% oltre i 90mila euro l’anno e 10% sopra i 150mila) rientra in questa logica?
Sì, queste pensioni non rappresentano quello che in termini tecnici viene definito “equivalente attuariale”, cioè il rapporto tra i contributi versati e la pensione percepita. A proposito però di pensioni dorate, vorrei sottolineare che la loro riduzione dovrebbe partire dai vitalizi, perché non le chiamano pensioni, dei nostri politici. Esse non soffrono delle misure contenute nella manovra: in termini di esempio, soprattutto quando si chiede ai cittadini di fare sacrifici, ciò è piuttosto demoralizzante. Una riduzione delle spese pensionistiche della classe politica è il minimo che ci si dovrebbe aspettare.

L’adeguamento delle pensioni all’aspettativa di vita. Una discussione perpetua su un provvedimento adottato in molti Paesi. Come mai non è stato ancora recepito?
La nostra classe politica ci ha abituato a queste piccole furbizie. Non è che procrastina, è che parte della misura entra in vigore nel 2015, quella stessa misura l’anno dopo viene anticipata 2012, adesso si passa al primo gennaio 2013. Penso che i cittadini meritino di essere trattati da adulti. Il Paese ha già effettuato questo adeguamento diverse volte in passato, se la vita si allunga una parte va dedicata al lavoro, è normale. Un esempio: la storia delle “finestre”. Ora siamo in un regime di quote per cui il pensionamento si ha o con 50 anni di anzianità e 57 o 58 anni di età, oppure attraverso la pensione di vecchiaia, a 60 anni per le donne e 65 per gli uomini. Tuttavia, per l’effetto delle “quote”, se uno matura il diritto alla pensione ma la finestra si apre dopo un anno, deve aspettare. Questi sistemi hanno un sapore di “intromissione” e riducono la trasparenza. Il sistema adottato nel ’95 era basato su flessibilità e trasparenza, e si prestava poco a questi giochetti. Siamo ancora invischiati nella transizione dalle pensioni di anzianità a quelle contributive.

Altra questione: il posticipo del pensionamento (un mese nel 2012, tre mesi nel 2013 e sei nel 2014) anche per chi ha già maturato 40 anni di contributi, a prescindere dall’età anagrafica. Un palliativo?
Si tratta di una misura temporanea che mal si concilia con l’idea di una pensione contributiva. Mi spiego: una persona deve poter andare in pensione anche se ha maturato soltanto 20 anni di contributi, se indicizzati a una vita contributiva piena. È come un conto bancario, i beneficiari dovrebbero godere di una certa discrezionalità nella gestione.

Ultima domanda: si dice sempre che le pensioni gravano sui giovani, per di più precari. È d’accordo?
La crescita è indissolubilmente legata alla produttività delle persone e alla qualità del capitale umano. Oggi il lavoro è flessibile, e trovo che i giovani vadano incoraggiati al riscatto degli anni di studio: poter utilizzare periodi della vita in cui si è fuori dal mondo del lavoro per accumulare contributi senza perdere la propria storia contributiva è adeguato al modo di lavorare odierno, in cui la formazione è costante. Tuttavia, c’è un messaggio di fondo sbagliato e illusorio: dire che i giovani precari pagano le pensioni senza a loro volta averne diritto in futuro significa partire dalla fine del problema. I giovani hanno bisogno di un lavoro buono e ben remunerato, altrimenti la pensione sarà bassa e pagata dalla fiscalità generale. Abbiamo bisogno di crescere perché il sistema pensionistico funzioni bene: se le pensioni vengono pagate soltanto sulla base di una redistribuzione e di una continua formazione di debito il sistema rimarrà in uno stato di squilibrio permanente.  

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