«Non siamo la Grecia, per destabilizzarci sono necessarie ingenti risorse finanziarie. La speculazione ha fotografato una situazione dei nostri conti pubblici ben precisa». È questa l’analisi delle ultime settimane borsistiche di Francesco Timpano, ordinario di Politica economica alla sede di Piacenza dell’Università Cattolica di Milano, che spiega: «Siamo in terribile ritardo, bisognava agire tra il 2001 e il 2006, quando gli interessi sul debito erano molto bassi, per controllare la spesa pubblica», anche perché «i dati mostrano come non siamo più un popolo di risparmiatori». Timpano interviene anche nel dibattito lanciato de Linkiesta sulla patrimoniale, lanciato da Pietro Modiano e dal prof. Luigi Campiglio, osservando: «Esiste già in questa manovra, è il bollo sul deposito titoli».
Partiamo dalla finanza. Il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e tedeschi continua ad allargarsi, i tassi d’interesse sui Btp emessi giovedì dal Tesoro hanno toccato il record del 5,77 per cento. Gli analisti parlano di un punto di non ritorno quando il tasso toccherà quota 7 per cento. Quanto siamo vicini a questo punto?
Dire che è la speculazione che ha messo sotto attacco l’Italia è un gioco mediatico curioso, come si fa a sostenere che l’innalzamento del differenziale di rendimento (spread) con il Bund tedesco (lo Stato tedesco è considerato dagli investitori l’emittente sovrano più affidabile in Europa, ndr) è colpa di qualcun altro? La speculazione attacca chi ritiene attaccabile. Non siamo la Grecia, per destabilizzarci sono necessarie ingenti risorse finanziarie. La speculazione ha fotografato una situazione dei nostri conti pubblici ben precisa, per tre volte di fila in tre settimane (gli ultimi tre lunedì Piazza Affari ha chiuso sempre con pesanti perdite, ndr) e nessuno ha proposto un cambiamento politico vero. Ritengo che, al di là degli aspetti squisitamente tecnici, siamo in una fase in cui i mercati semplicemente non credono in quello che stiamo facendo. Il problema dello spread è che nel giro di un mese è aumentato di un punto percentuale. Un altro punto di altrettanta preoccupazione è l’indicatore dei Cds (derivati che assicurano dal rischio-emittente, ndr), che sta prendendo una piega particolarmente preoccupante: ci stiamo decorrelando rispetto agli altri paesi europei. Fino a qualche settimana, eravamo abbastanza correlati con il rischio tedesco, adesso ci stiamo disallineando ogni giorno di più.
La Spagna ha annunciato venerdì le elezioni, proprio nel giorno in cui Moody’s ha minacciato un altro declassamento. In Italia continua a tenere banco l’affaire Milanese. Paradossalmente, l’abitudine italiana a non dimettersi mai potrebbe rivelarsi opportuna?
Al contrario, penso che annuncio di Zapatero abbia l’obiettivo di rassicurare i mercati, e non di intimorirli. A caldo, ritengo che il premier spagnolo abbia fatto ciò che uno statista deve fare, ovvero accelerare il processo di rinnovamento verso un nuovo esecutivo più stabile. Sa che non si ricandida e probabilmente il suo partito perderà le elezioni. I mercati, in questo modo, sanno che in pochi mesi ci sarà in carica un nuovo presidente titolato dal voto popolare. Nel caso italiano, più che le vicende giudiziarie, gli eventi di questi giorni sanciscono il fallimento della strategia adottata da Tremonti nella gestione del debito pubblico.
Ma Tremonti non era considerato, a livello internazionale, capace di tenere sotto controllo il debito?
Rispondo con alcuni dati: nel 2007 il rapporto tra debito e pil era al 103,5%, nel 2011 è al 120,3 per cento, mentre la media europea è all’82,3 per cento. Uno può dire che poteva andare peggio. Se fosse andata come in Germania, sarebbe sicuramente peggio, in termini assoluti, in quanto i tedeschi hanno il debito più alto di tutti in Eurozona. Quindi, ha ragione chi dice che Tremonti ha tenuto i conti, ma non bisogna dimenticare che, nonostante politiche economiche significative, i risultati sono peggiorativi. Altra considerazione: è vero che la ricchezza privata è alta rispetto agli altri Paesi, ma non siamo più un popolo di risparmiatori. I dati Eurostat indicano che nel 2007 il risparmio privato era al 20,1% del Pil, nel 2010 è sceso al 17,6%, mentre in Germania, sempre nel 2010 è al 23,3 per cento. Ancora, il risparmio delle famiglie, inteso come percentuale del reddito disponibile non destinato al consumo, è passato dal 23% degli anni ’90 al 15% di oggi. La crisi ha generato una contrazione risparmio privato. Per carità, il fenomeno è relativamente recente rispetto a tanti anni di gran risparmio, ma è un dato di fatto che le formiche italiane stiano diventando più cicale.
Quanto può andare avanti un Paese che si regge sulla capacità di spesa delle due generazioni precedenti?
Da tempo molte famiglie italiane hanno cominciato a minare la loro riserva di ricchezza per affrontare le difficoltà del presente, il fenomeno si sta allargando e si legge da tanti segnali, come l’aumento dei protesti, dei fallimenti, delle difficoltà sui canali di finanziamento come le carte di credito e le finanziarie varie. Sono indicatori che mostrano un Paese già in sofferenza, che già sta vendendo asset accumulati nel passato per affrontare l’oggi.
Quali soluzioni di politica economica sono necessarie?
Abbiamo perso molto tempo, non necessariamente negli ultimi due o tre anni. Un inciso: per tre anni ci hanno detto che le banche italiane sono sane. Oggi scopriamo che non lo sono. Le banche di un paese indebitato come il nostro sono sempre a rischio. Poi, è vero che il loro modello di business non è aggressivo come quello anglosassone, ma non è altrettanto vero che non siano stati erogati mutui generosi, o prestiti oltre il necessario. Cosa che, peraltro, tutti fino a ieri chiedevamo loro di fare. Oggi, gli istituti di credito nazionali stanno lavorando con margini molto risicati, e ciò desta enorme preoccupazione. Tornando alla manovra: era necessaria, e anche nei saldi non poteva essere molto diversa. Ritengo tuttavia che l’Italia abbia avuto un buco tra 2001 e il 2006. È in quel periodo, quando gli interessi sul debito erano molto bassi, che non sono state approntate le riforme necessarie a un maggiore controllo della spesa pubblica o come l’allungamento delle scadenze e la ristrutturazione del debito per gestirlo meglio. Il risparmio sugli interessi doveva essere lo strumento della nostra politica economica, perchè se salgono gli interessi, si innalza anche l’avanzo primario, e dunque è necessario aumentare le tasse e tagliare le spese. Abbiamo cominciato con Padoa-Schioppa, l’attuale Governo Berlusconi si è messo sulla stessa strada, ma troppo tardi. Brunetta ha detto che l’esecutivo ha salvato il Paese, ma la spesa pubblica del primo trimestre 2011, è aumentata anno su anno da 153 a 156 miliardi di euro, mentre quella per gli investimenti è calata da 11 a 10,5 miliardi di euro. Poteva andare peggio, è vero. Senza i tagli lineari, probabilmente, la spesa sarebbe cresciuta del 10 e non del 2,5%, ma il punto è esattamente questo: la spesa continua a crescere.
Quali sono, a suo giudizio, gli aspetti migliorabili della manovra?
Premesso che la manovra di oggi è comparabile agli sforzi chiesti agli italiani per entrare nell’euro, un tema importante riguarda la riforma fiscale. Venti miliardi su 48 totali dipendono dall’esercizio della delega fiscale entro settembre 2013. Qualora non scattasse, l’aggravio sarà appunto di 20 miliardi: un numero importante, anche perché la delega afferma che la pressione fiscale sui cittadini non aumenterà, ma allora dove si recuperano i 20 miliardi? Intervenendo su deduzioni e detrazioni. È ovvio che, se il debito è elevato, bisogna aumentare le tasse. Però in modo selettivo, non colpendo i redditi bassi. Sia chiaro: la redistribuzione del carico fiscale è una questione indipendente dal colore politico di un governo. Una riforma fiscale seria implica anche un intervento sugli ammortizzatori sociali per omogeneizzare i trattamenti, e il sostegno ai redditi meno elevati per alimentarne i consumi. Aggiungo che una buona riforma fiscale dovrebbe includere un’imposta patrimoniale.
Sulle pagine de Linkiesta, il dibattito sulla patrimoniale è vivace. Il prof. Campiglio, ha risposto a un intervento del nostro socio Pietro Modiano. Quali sono le sue riflessioni?
Sono convinto che una parte patrimoniale bassa e selettiva, che interessi i redditi oltre una certa soglia di ricchezza, sia uno strumento utile. La cosa curiosa è che, in questa manovra, la patrimoniale esiste già: il bollo sul deposito titoli, proporzionale al patrimonio, da cui lo Stato incasserà ben 4 miliardi di euro, non proprio una sciocchezza per un’imposta di bollo. Su questo punto da parte del governo c’è stata scarsa trasparenza nei confronti dei cittadini. Anche la tassa per entrare nell’euro era odiosa, ma era condivisa da tutti. Non c’era un dissenso come l’attuale, diffuso e generalizzato, che deriva dalla totale mancanza di credibilità nella politica.
Esistono dei margini per effettuare dei tagli a costo zero?
Tutti gli economisti chiedono una seria spending review, che significa andare a guardare dove è possibile risparmiare. Controllare la spesa pubblica con i tagli lineari premia le inefficienze: se tagliamo a tutti il 10%, si favorisce chi merita un taglio del 30% e si penalizza chi merita invece un taglio del 2 per cento, in quanto virtuoso. Bisogna inoltre portare avanti una riforma federalista in favore degli enti locali, che hanno una capacità di spesa immediata e possono favorire – attraverso gli appalti, per esempio – le imprese sul territorio. Non condivido l’idea per cui le riforme in tempo di crisi non si fanno, anzi. Si poteva affrontare il problema dello spostamento del peso fiscale dal lavoro al capitale, per non parlare dell’evasione fiscale, soprattutto quando 3 punti percentuali di spread in più costano allo Stato 40-45 miliardi di euro l’anno. Infine, mettere mano al sistema delle pensioni per renderle flessibili.
Quali le riforme immediatamente realizzabili?
Andare avanti con le liberalizzazioni, ad esempio nella distribuzione commerciale, dove mi sembra siano stati fatti dei passi indietro di tipo protezionistico, e sulla riforma delle professioni. Lo dice alla prime righe qualsiasi manuale di economia: quando il prezzo di un bene o servizio include una rendita c’è un surplus di inefficienza.