La scorsa settimana in Cina il direttore dell’equivalente della nostra Corte dei Conti ha dichiarato che le amministrazioni locali del paese asiatico alla fine del 2010 avevano raggiunto un livello di indebitamento di 2.200 miliardi di dollari, pari a circa il 27% del Pil nazionale. È emerso che città e province da anni emettono titolo di debito locali per costruire grandi progetti infrastrutturali. E per evitare che il tutto comparisse nei bilanci pubblici, si creavano agenzie statali ad hoc, con bilancio separato. La banca d’affari svizzera Ubs ha calcolato che gli organismi di investimento locale potrebbero esser protagonisti di default per circa 460 miliardi di dollari nei prossimi anni. Insomma, sembra che il nuovo modello cinese, in armonia tra libero mercato ed economia di comando, abbia unito maldestramente i difetti di entrambi i sistemi.
Il primo problema riguarda la destinazione degli investimenti. Noi occidentali siamo rapidissimi ad ammirare la solerzia con cui i cinesi tirano su grattacieli e distese di autostrade, ma spesso trascuriamo di domandarci (così come sembrano dimenticarsene anche i cinesi) quanta parte di questi investimenti infrastrutturali sia effettivamente profittevole. Negli ultimi anni ben il 70% della Pil cinese è dipeso dalla spesa per infrastrutture. È impossibile che tutto questo stock di capitale produca ritorni tali, da mantenere in piedi l’economia. Di certo non crollerà tutto, ma è estremamente probabile che alcune province avranno seri problemi di sostenibilità finanziaria.
Questo effetto risponde ai tratti di ispirazione «socialista» dell’economia nazionale. I sistemi a pianificazione statale, normalmente, sono in grado di coordinare le risorse in maniera coerente nelle fasi di sviluppo iniziale verso l’industrializzazione, ma non appena il contesto si fa più complesso, non sono più in grado di «elaborare tutte le informazioni del mercato» (per dirla con le parole del liberista von Hayek), e si possono perseguire investimenti non sostenibili. Le grandi cattedrali industriali sparse per il Sudamerica, così come i relitti delle fabbriche socialiste da Poznan a Volgograd, sono la dimostrazione di questo assunto.
La componente negativa del «mercato libero» presente nel sistema misto cinese è rappresentata dalla speculazione. I cinesi hanno una forte attitudine al risparmio (poiché è proprio dal risparmio, che dipende l’investimento), e parte di questi soldi ha preso la via del debito pubblico statunitense. Il resto ha fomentato la crescita di bolle finanziarie in casa, tra le quali la principale è rappresentata dal settore immobiliare. Ciò ha alimentato anche un ciclo di sviluppo edile, collegato perversamente alla «mania» di spesa in infrastrutture statali. La situazione si è fatta più difficile con la crisi del 2008. In reazione ai problemi di esportazioni, Pechino ha aperto le casse, sostenendo di voler avviare un programma di ristrutturazione economica per stimolare la domanda interna.
Si sono sollevate poche critiche su un aspetto che sembrava tuttavia evidente: per far crescere la domanda interna, sono i cittadini a dover consumare di più e non lo stato. Nel breve termine, i 560 miliardi di dollari pompati nel sistema hanno tenuto in piedi l’economia. Con il passare dei mesi, congiuntamente ad altre politiche sul credito, hanno contribuito all’esplosione dell’inflazione e delle bolle speculative. Proprio l’inflazione è adesso il problema principale. La ragione non è solo monetaria (aumento dei prezzi dovuto all’aumento della quantità di moneta nell’economia) ma «reale»: i fattori produttivi diventano più scarsi e costano di più.
Questa è la difficoltà maggiore che i pianificatori cinesi devono affrontare. Si sono accorti da tempo del fatto che lavoro e strutture sono più care nelle regioni della costa occidentale, e hanno provato a espandere le potenzialità della Cina interna, con la «Porta verso Ovest» della città di Chongqing, un mostro industriale che cresce di 500mila abitanti l’anno, e dovrebbe aver raggiunto attualmente i 30 milioni. Solo che stimolare l’economia qui crea un fenomeno di «concorrenza interna» nel paese, con una gestione difficile degli equilibri possibili. Una produzione a basso costo a Chongqing fa concorrenza a quelle di Shanghai, se non c’è una domanda interna stabile e matura.
L’Unione Sovietica verso metà anni Ottanta ha intrapreso un programma molto ambizioso di investimentoper rilanciare l’economia nazionale. Si trattava di un programma post-marxista, voluto da Gorbaciov, e intitolato «Uskorenie» (Accelerazione). Pochi mesi prima di essere nominato segretario, il leader sovietico aveva incontrato Margaret Thatcher a Londra, la quale gli aveva chiesto come mai l’Urss per crescere, semplicemente, non potesse abbracciare la piena economia di mercato. Fu l’unico momento della conversazione in cui Gorbaciov parve irritarsi. Adesso anche i pianificatori cinesi potrebbero essere attratti dall’idea di imporre un piano di rilancio statale. Potrebbero fare lo stesso errore dei sovietici: far prevalere il prestigio dei politici su tutto il resto, misurando il successo con la capacità di convogliare denaro pubblico e costruire ponti, strade, palazzi, fabbriche.
Non è una formula che funziona nelle economie sviluppate. C’è chi afferma che, comunque, non ci sono problemi: Pechino ha riserve di valuta estera per oltre tremila miliardi di dollari, e potrebbe tranquillamente coprire il proprio debito. Il problema – che ancora pochi hanno osservato – è che per coprire il debito interno questo stock di denaro estero dovrebbe essere convertito in yuan. Ciò provocherebbe un apprezzamento della valuta nazionale, e con questo le esportazioni cinesi subirebbero un colpo fortissimo. Inoltre, gli investimenti cinesi all’estero perderebbero profittabilità, per cui il ciclo di cassa di Pechino avrebbe problemi di sostenibilità: a fronte di un investimento realizzato con lo yuan «basso», i dollari o gli euro di profitto genererebbero utili ridotti, una volta che lo yuan si sarà rivalutato. Sarebbe un’esplosione che colpirebbe sia l’economia domestica cinese, che quella internazionale. Il peggio deve ancora iniziare.