«Una donna nuda? Dove?» Immaginatevi un po’ lo sconquasso che una frase del genere può suscitare qualora sia gridata in un accampamento militare. Eppure proprio questo è stato lo sbigottito urlo di un ufficiale italiano del genio il 29 dicembre 1913, quando un caporale corre tutto trafelato a riferirgli di esser inciampato nella statua di una donna nuda emersa dal terreno all’interno della baracca della sussistenza. Il luogo dove tutto ciò accade è Cirene e la statua in questione è quella celeberrima della Venere, al centro di lunghe trattative tra i governi di Roma e Tripoli e di recente restituita a un gongolante Gheddafi da un sorridente Berlusconi.
Le vicende del ritrovamento, fortuito e rocambolesco, sono state ricostruite da un giovane studioso, Andrea Bianchi, grazie al fondo sulla guerra di Libia conservato nell’archivio di storia contemporanea del Museo del Risorgimento di Milano.
Il 30 maggio 1913 un trionfale bollettino di guerra annuncia: «Oggi le nostre truppe al comando del generale Giulio Cesare Tassoni sono entrate a Cirene. Dopo dodici secoli di abbandono, Cirene ritorna a nuova vita sotto la nostra bandiera». La zona viene occupata da 8.600 tra fanti, alpini e cavalleggeri, 2.300 quadrupedi e 1.150 cammelli. Un mucchio di soldati, insomma, che si accampano tra le rovine di quella che era stata prima un’importante colonia dorica e poi (dal 96 a.C.) il capoluogo di una provincia dell’impero romano. A Cirene erano nati il matematico greco Eratostene e l’ebreo Simone il Cireneo, ovvero colui che, secondo i Vangeli, era stato costretto a trasportare la croce di Gesù. È molto probabile che alla quasi totalità dei militari italiani di Eratostene e di Simone il Cireneo non interessasse un fico secco, mentre erano probabilmente molto più attenti ai lavori che si stava apprestando a fare il genio: la costruzione di una serie di ridotte e fortini per mettere in sicurezza la zona, nonché degli alloggiamenti e dei forni da campo.
In pieno deserto in ogni caso il problema più grosso è l’approvvigionamento idrico, ma è noto che in quei paraggi da un paio di millenni zampilla una copiosa sorgente d’acqua. Secondo una leggenda, infatti, Minerva si era immersa in quella sorgente, mentre Eratostene, Aristippo, Apollonio e Carneide s’erano abbondantemente dissetati.
Le tende bianche e ottagonali della Croce rossa e le baracche della sussistenza militare vengono innalzate sul piazzale dove allora era semisepolto il grande tempio di Apollo, mentre i forni da campo sono costruiti proprio all’interno dei resti del tempio. La guerra, a Cirene, non è poi granché scomoda e gli italiani gironzolano tra le rovine della grande e celebre città greca. Dal terreno affiorano un sacco di colonne, capitelli, statue e pietre miliari sulle quali i soldati incidono allegramente i loro nomi.
Ed eccoci al 28 dicembre. Natale è appena passato, sta per arrivare Capodanno, dall’Italia sono stati generosi e hanno mandato un rancio speciale: scatolette di carne, quarti di bue e quintali di pasta. Dai forni si sparge per l’aria il buon profumo del pane in cottura, mentre una cinquantina di soldati all’interno della baracca n. 1 della sussistenza si dà da fare per preparare il rancio speciale.
Ma poi accade quel che nel deserto nessuno si aspetta che accada: si scatena un temporale pazzesco. All’una e cinquanta di notte comincia a rovesciarsi sull’accampamento una quantità di pioggia tale da assumere presto l’aspetto di un’alluvione. Il vento fa volar via i tetti, la baracche vengono allagate, gli animali scappano. Il finimondo dura fino all’alba e i soldati cercano di rifugiarsi nei luoghi più riparati delle rovine.
Quando il fortunale si allontana, i militari escono tramortiti e inzuppati dai loro rifugi provvisori e trovano il campo tutto allagato e sconquassato. Un caporale corre nelle baracca della sussistenza per vedere quanto possa essere recuperato. Ma entrando inciampa su qualcosa e cade; si volta e scorge nel terreno una statua di marmo raffigurante una donna nuda, senza testa e braccia. Il caporale allora corre urlando verso un ufficiale del genio che sta lavorando lì vicino per incanalare la melma: «Signor capitano, ho trovato una statua». «Una statua? Che statua?» «Una statua di donna nuda». «Una donna nuda? Dove?»
L’ufficiale, seguito dal caporale e da altri soldati entra nella baracca della sussistenza: la Venere è là, sola, distesa al suolo tra le superstiti scatolette di carne, le gallette gonfie d’acqua, le damigiane di vino e i quarti di bue. L’ufficiale la guarda sbigottito e fa chiamare il colonnello. Questi avvisa il generale Alberto Cavaciocchi, all’epoca comandante di tutte le truppe dislocate nella zona di Cirene. Cavaciocchi dorme, ma nel sentire del ritrovamento di una statua raffigurante una bellissima donna nuda, si alza immediatamente e corre a vedere. Ordina di trasportare la scultura nella sede del comando, la colloca in una stanza asciutta, piantonata da soldati armati.
Una notizia del genere non ci mette molto ad arrivare al comando generale di Bengasi che immediatamente ordina: «Trasportare con tutti i possibili accorgimenti et precauzioni la statua della Venere at questo Comando – stop. Dare immediata assicurazione – stop.» Così la Venere che per una dozzina di secoli era stata sepolta in una delle celle delle Terme di Cirene, lascia la capitale del regno della bellissima Berenice e si trasferisce a Bengasi. Rimane là per quasi un anno e poi viene trasportata Roma al Museo nazionale delle Terme dove viene meticolosamente ripulita prima di essere esposta e di divenire, quasi un secolo dopo, materia di scambio nelle schermaglie diplomatiche tra Italia e Libia.
Francobolli italiani dell’epoca coloniale con l’immagine della Venere di Cirene