Pubblichiamo la postfazione al Libro “Luigini contro Contadini” di Gabrio Casati edito da Guerini e Associati. La postfazione è un’intervista di Jacopo Tondelli all’autore, “un autore collettivo orgogliosamente milanese”. Nella prefazione del libro, firmata da Giulio Sapelli, si legge che il testo è “irto di pensieri puntuti da cui non si salva proprio nessuno”. E in effetti, leggendo il lavoro di Gabrio Casati, la classe politica e l’establishment economico che vive di rendita – i Luigini, secondo la dizione di Carlo Levi – difendono interessi che confliggono con quelli di chi produce lavoro e profitto – imprenditori e lavoratori, “i contadini”. Un lavoro, quello di Gabrio Casati, che scompone le tradizionali categorie di analisi e politiche per analizzare in modo originale e nuovo la grande questione politica degli ultimi vent’anni – la questione settentrionale – e “il suo lato oscuro”.
JT – Sono passati alcuni anni da quando vi presentaste alla redazione di Ambrogio – l’allora inserto milanese de Il Riformista – con quei primi articoli sulla vicenda Malpensa e Alitalia. In quei pezzi c’era lo sguardo sul Nord e dal Nord che fece di Gabrio Casati un collaboratore fisso di quell’esperienza giornalistica. L’impressione però, rileggendoli, era che allora Gabrio fosse un tecnico, molto meno un politico. All’epoca non pensavate ai «Contadini»…
GC – A rileggere oggi quella serie di articoli, possiamo dire che in qualche modo i «protagonisti» di questo libro fossero già tutti presenti, sebbene non avessero ancora un nome. Per rimanere al caso citato, i «Luigini» della cordata dei patrioti, la mancanza di visione della classe dirigente milanese e lombarda, gli «Assistiti» che ruotavano attorno alla compagnia di bandiera, il «Palazzo» catturato dai loro interessi e, naturalmente, i «Contadini» nelle molteplici vesti di contribuenti cui viene chiesto di pagare l’onere del salvataggio, di clienti costretti a pagare gli extra-costi del monopolio su alcune rotte, di imprese e passeggeri di un territorio privato di collegamenti diretti con il resto del mondo ecc. Però, certamente, nulla di tutto questo era codificato e inserito in un qualche schema interpretativo capace di tenere insieme le diverse parti e di estendersi ad altre vicende.
JT – Come è iniziato il percorso di «codifica»?
GC – Una solida base di partenza è sempre stata, anche negli articoli su Il Riformista, la constatazione dell’abnormità del disequilibrio territoriale nella raccolta e redistribuzione delle risorse pubbliche. Il quale porta immediatamente a due ordini di considerazioni. Il primo riguarda la straordinaria capacità di produzione di ricchezza e di tenuta (nonostante tutto) del tessuto socioeconomico dei territori pagatori. Meglio, dei lavoratori e delle imprese di quei territori. Una qualità per la quale – detto per inciso – ci è sempre stato impossibile provare altro che una sconfinata ammirazione. Il secondo ordine di considerazioni riguarda l’insufficienza e talvolta la pochezza della classe dirigente politica di quegli stessi territori, che abbiamo cercato di raccontare negli articoli, molto più che in questo libro, con asprezza e qualche volta anche con un eccesso di polemica, forse prodotto dal rammarico, dalla rabbia o solo da un’infinita tristezza.
JT – Qui però mancano ancora i «Luigini».
GC – Sì, quelli sono saltati fuori – come categoria – quando abbiamo cominciato a chiederci dove collocare una fetta, numericamente forse esigua ma senz’altro influente, del potere espresso in larga parte dallo stesso Nord. La domanda, al fondo, è stata perché di fronte alla sottrazione gigantesca di risorse rappresentata dal disequilibrio territoriale quei soggetti che avrebbero le risorse e i mezzi per reagire, sostanzialmente non muovono un dito? Meno ingenuamente: quali interessi hanno questi soggetti per militare a favore del mantenimento dello status quo? Qui abbiamo rotto – e non è poi un’operazione così originale – l’unitarietà politica del Nord, riservando solo a una sua parte, numericamente maggioritaria, la qualifica di «Contadini», benché il termine non fosse ancora coniato e benché non avessimo ancora compiuto l’operazione di estendere dal punto di vista funzionale il «saccheggio» anche ai campi occupati dal consumo di beni, dalla fruizione di servizi pubblici o dal rapporto tra grande committente e piccolo fornitore, limitandoci a contribuenti, lavoratori e imprese micro, piccole e medie.
JT – Nel libro siete piuttosto netti nel precisare quanto i vostri «Luigini» e «Contadini» siano gli eredi post-moderni di quelli di Levi, nel senso che identificate le caratteristiche essenziali degli individui che compongono questi due gruppi nel loro modo di produrre reddito (in modo lecito e competitivo da parte dei «Contadini», più «opaco» e certamente corporativo per i «Luigini») e non già nella loro posizione nel processo produttivo o nella scala sociale. È già abbastanza per rendere molto complicata un’interpretazione politica del conflitto tra queste due categorie. Lo spaesamento diventa totale quando demolite ogni opzione politica in campo nell’Italia di oggi, peraltro senza lesinare sulla ferocia della critica. Non è difficile constatare che l’esperimento della «Seconda Repubblica» volga al termine, e non solo per le difficoltà delle forze politiche che compongono la maggioranza di governo. Per l’avvio di una supposta «Terza Repubblica» da qualche parte bisognerà pur cominciare e la nascita di punto in bianco di un «Partito dei Contadini» non sembra alla portata. Dunque?
GC – Beh, a dire il vero abbiamo anche detto, un po’sbrigativamente, che lo scenario del declino ci sembra quello più probabile e che un «Partito dei Contadini» non nasce certo dalle pagine di un libro. Un libro, questo libro, può al massimo avere l’ambizione di offrire qualche materiale di riflessione per l’avvio di un processo, nulla più. E sarebbe già moltissimo. Al di là della puntualizzazione e persino della confutazione, che eventualmente potrà essere compiuta, di molte delle analisi contenute in questo piccolo scritto, ci sono almeno tre «cardini» su cui ruota l’intero ragionamento svolto che ci piacerebbe fossero assunti come elementi di riflessione e di lavoro politico: uno «a monte», il recupero del conflitto come categoria propria della politica, abbandonando il tratto tribale che ha caratterizzato il dibattito e il confronto politico, soprattutto nell’Italia della cosiddetta «Seconda Repubblica»; uno analitico, il riconoscimento – comunque la si voglia definire – di quella forza straordinariamente positiva costituita da chi, nonostante tutto, continua a produrre le risorse che alimentano il sistema, smontando e rimontando le supposte basi del consenso; e l’ultimo, se vogliamo più operativo, che consiste nell’assunzione della dimensione internazionale come dimensione necessaria dell’agire politico, cercando di uscire dal quel totale ripiegamento su se stessi che connota il dibattito pubblico italiano, paradossalmente proprio a partire da quando il mondo è sembrato farsi più piccolo e più aperto.
JT – Non si può dire che questi siano anni con un clima di pace e concordia tra le parti…
GC – Certo che no. Ma è almeno dal ’92 che assistiamo al progressivo scivolamento del confronto politico, e dunque della costruzione del consenso, su basi che nulla hanno di politico. Da un lato la delegittimazione dell’avversario portata avanti a suon di giudizi morali, dall’altro le retoriche derivate dal mainstream liberista usate a destra e sinistra a mo’ di precetti per il buon governo, neutrali per definizione, occultano sistematicamente ogni riferimento agli interessi reali di gruppi e categorie sociali o alla dimensione collettiva dell’agire politico. La personalizzazione della politica a fare da cappello. Da un conflitto tra «buoni» e «cattivi», tra «giusto» e «ingiusto», «torto» e «ragione» o peggio tra «tizio» e «caio» non se ne esce se non attraverso la prevaricazione, con l’eliminazione dell’avversario e non con la sua sconfitta. Tu puoi ritenere politicamente giusto un confronto anche aspro per guadagnare una quota maggiore di plusvalore al tuo salario, ma non misconosci la legittimità e anche la giustezza della tua controparte di fare altrettanto per guadagnare la stessa quota al profitto: è il più classico dei terreni battuti dalla politica novecentesca, conflitto sì e persino violento, ma sempre più civile di una qualsiasi «soluzione finale».
JT – … da qui i vostri «Contadini».
GC – I «Contadini» sono prima di tutto una necessità materiale del sistema. Senza di loro non esisterebbe nulla. Sono l’infaticabile motore che continua a muovere la macchina, senza il quale tutti gli altri accosterebbero alla prima piazzola di sosta in attesa di un soccorso stradale che non arriverebbe mai. Moralmente ci sarebbe un debito quantomeno di riconoscenza. Politicamente una necessità di riconoscimento e rappresentanza. Quel motore non può essere messo indefinitamente sotto sforzo, non può esserne trascurata la cura e la manutenzione senza sapere che prima o poi rischia di rompersi. E non sembrano esserci all’orizzonte altri motori. La sequenza di cambiamenti e sconvolgimenti cui i «Contadini» hanno saputo fare fronte negli ultimi vent’anni è impressionante; la loro forza è stupefacente considerando che il sistema, e la Politica innanzitutto, non solo non ha fornito supporti, ma, al contrario, ha generalmente frapposto ostacoli. Non è solo il volo del calabrone, è un calabrone che vola con un plotone di fucilieri intenti a impallinarlo.
JT – C’è dell’enfasi, non molto dissimile da quella che avete spesso riservato a Milano. Che però è pressoché assente dalle vostre pagine.
GC – Milano è, come spesso nella sua storia, un nodo di concentrazione e convergenza. Un paradigma che evidenzia e definisce, per anticipazione e amplificazione, i fenomeni che agitano il Paese. Non c’è forse luogo capace di mostrare con tanta nitidezza, il contrasto tra una società «contadina» che «macina» sempre e comunque e l’assenza di classe dirigente. Mentre nella gran parte dei contesti di antica industrializzazione la svolta terziaria produceva panorami da film di Ken Loach, Milano ha visto dismettere il suo enorme patrimonio di fabbriche senza fare neanche un «plissé», come direbbe Jannacci. Negli anni Novanta da qualche parte in questa città si parlava criticamente di precariato e lavoro autonomo mentre il mondo parlava entusiasticamente di «flessibilità», non è un caso che la «May day parade» – la manifestazione del Primo Maggio organizzata dai centri sociali e dalla FIOM alternativa e distinta da quella «ufficiale» dei sindacati confederali – sia nata qui. In meno di un ventennio una città le cui comunità straniere più numerose erano quelle degli svizzeri, dei tedeschi e degli statunitensi, ha «digerito» un’immigrazione che in altri contesti s’è affermata in periodi lunghissimi. Oggi quasi un quinto dei milanesi è straniero, oltre metà delle imprese che nasce ha titolare con cittadinanza extra-UE. Le frizioni e le scosse di assestamento ci sono, ma per ora – nonostante la roboante e violenta retorica leghista – di ghetti o, peggio, di fucilate alla schiena qui non se ne sono ancora visti. Nel più completo silenzio, a partire da un decennio, in concomitanza con il Salone del Mobile, l’intera città si trasforma per una settimana in una sterminata piazza in cui si incontrano centinaia di migliaia di operatori del design provenienti da tutto il mondo. Sono solo alcuni esempio di come Milano possa ancora contare su una società estremamente ricca di iniziativa e di pensiero, di un forza davvero formidabile. Al contempo la politica cittadina è veramente stata spazzata via. È completamente incapace di fornire una cornice di senso e un supporto concreto al pieno dispiegamento di quelle forze. Quando compare, lo fa nell’allucinante scaramuccia da cortile per le aree di Expo, nelle primitive contrapposizioni del «partito dell’auto» contro l’ecopass, nella disintegrazione di ricchezza e patrimoni pubblici come nel caso Metroweb. Il resto della classe dirigente pensa beatamente ai fatti suoi, lontanissimo da quando – non senza interessi – riusciva comunque a dare il segno della sua presenza, persino fisicamente con capolavori dell’architettura come il Grattacielo Pirelli. Tutto questo, Milano, meriterebbe un libro a sé, come racconto non di una città, ma come palco su cui recita l’Italia.
JT – Gabrio Casati ci parla, per finire, di Gabrio Casati?
GC – No… solo un po’, non c’è poi tanto da dire, come sai. Gabrio Casati è innanzitutto un gruppo di persone, peraltro molto eterogeneo al suo interno e in parte anche mutevole nella sua composizione. Gli articoli e ancora di più questo libro, sono frutto di molte esperienze e soprattutto del loro convergere in interminabili discussioni, ma sempre con una duplice finalità: la sintesi, come si diceva un tempo, e l’arricchimento individuale e collettivo. Per questo, prima che per ogni altra ragione, sarebbe impossibile e anche ingiusto firmarci con una trafila di nomi. Duplice anche l’ancoraggio comune del gruppo: Milano e la Politica come passioni e come appartenenze (benché con provenienze e collocazioni delle più disparate). Il nostro incontro, spesso del tutto casuale, è prima di tutto un tentativo disperato per oliare i rispettivi cervelli, data la scarsità di sistemi e luoghi alternativi, almeno alla nostra portata. Gli esiti concreti di questa pratica, tutto sommato, non sono mai stati prefissati. In fondo Gabrio Casati è solo questo, senza molte pretese: la necessità fisica di mantenere il cervello politicamente attivo. Del resto, Francesco Cossiga diceva che la politica è una droga che non prevede disintossicazioni. Le cliniche non ci sono mai piaciute.