L’Africa ha la sua Grecia: e per salvarla non resta che pregare

L’Africa ha la sua Grecia: e per salvarla non resta che pregare

Swaziland. Un piccolo regno montagnoso, da romanzo d’avventura: foreste, vallate verdi, praterie. Niente sbocchi sul mare, una sola stazione radiofonica. Il tempo scandito da antiche cerimonie tradizionali. Il simbolo dell’Africa più immutabile, all’apparenza.
Di recente però quest’ex protettorato britannico, stretto fra Sudafrica e Mozambico, ha attirato l’attenzione della stampa mondiale. Pure il Wall Street Journal gli ha dedicato un lungo articolo.
Il problema è che lo Swaziland è sull’orlo della bancarotta.
Secondo le stime del Fondo monetario internazionale (Fmi), nel 2011 il Pil swazi dovrebbe crescere dello 0,5%. Si tratta del peggior dato di tutta l’Africa australe: perfino il Lesotho, con il suo 3,1%, riuscirà a fare molto meglio; non parliamo poi della Namibia (+4,8%), del Botswana (+6%) o dello Zimbabwe (+7,2%), che pure continua a ritrovarsi come presidente un certo Mugabe.

Con un deficit da tragedia greca (oltre il 14% del Pil), e riserve valutarie in caduta libera, il regno africano rischia il collasso. La situazione è così drammatica che il ministro delle finanze, Majozi Sithole, ha addirittura invitato i concittadini a pregare Dio per ottenere un prestito d’emergenza dall’African Development Bank (AfDB).
Purtroppo le preghiere sono rimaste inascoltate, e il prestito è stato rifiutato. La ragione ? Lo Swaziland non ha varato le dure misure d’austerity richieste dal Fmi come pre-condizione al prestito. «Le cifre [dello Swaziland] sono piuttosto cattive. – ha dichiarato a riguardo il ruandese Donald Kaberuka, presidente dell’AfDB. La bocciatura di Fmi e AfDB era probabile. Già a marzo, durante una visita nel regno, Kaberuka aveva messo in guardia gli swazi: «L’attuale stato delle finanze pubbliche non è sostenibile.»
Sfumata l’ipotesi di un aiuto internazionale, allo Swaziland non resta che il Sudafrica.

A Pretoria il regno avrebbe già chiesto un prestito di dieci miliardi di rand sudafricani: un miliardo di euro.
Vincoli storici e culturali uniscono da tempo i due Stati. La comunità swazi in Sudafrica è piccola ma rilevante, e come ricorda a Linkiesta l’ambasciatore italiano a Pretoria, Elio Menzione, «una componente della popolazione sudafricana parla swati, una delle undici lingue ufficiali del Sudafrica. È una lingua, tra l’altro, molto vicina allo zulu: non dimentichiamo che gli zulu sono l’etnia di maggioranza relativa in Sudafrica. Anche il presidente è d’etnia zulu.»
L’aiuto finanziario sudafricano è indispensabile per il regno. Sia chiaro: un collasso dello Swaziland non rappresenta certo l’ennesima minaccia per l’economia globale. Perché se il Pil ellenico supera i 300 miliardi di dollari, quello swazi non raggiunge neppure i quattro.
Qualche parallelismo tra il regno africano e la Grecia però esiste. Come la crisi ellenica, anche quella swazi ha radici profonde. Nell’ultimo decennio il tasso annuo di incremento del Pil non ha mai superato il 3,1%, nemmeno nel 2006, quando l’economia del Lesotho è cresciuta del 4,7%, quella sudafricana del 5,6% e quella mozambicana di un invidiabile 8,7%.
E come nel caso della Grecia, economia debole con una divisa forte, anche la politica valutaria swazi non ha aiutato. «Il sopravvalutato lilangeni, che è agganciato al rand alla pari, ha ostacolato lo sviluppo delle esportazioni – spiega a Linkiesta Jan Duvenage, analista della Standard Bank (uno dei principali gruppi finanziari sudafricani).
Il super-lilangeni ha colpito soprattutto l’industria swazi, e in particolare le esportazioni tessili negli Usa.

Pure la crisi globale ha giocato un ruolo. Nel 2009 il Pil sudafricano si è contratto di oltre un punto e mezzo, con effetti devastanti sullo Swaziland. Quest’ultimo infatti è legato a doppio filo al potente vicino: circa il 60% del suo export finisce in Sudafrica, e dal Sudafrica arriva grossomodo il 90% dell’import. Senza contare che l’economia della Nazione arcobaleno è grande oltre cento volte quella swazi: quando la prima ha il raffreddore la seconda si becca (come minimo) la polmonite.
Il declino dell’export in Sudafrica, una minor affluenza di turisti sudafricani e soprattutto il forte calo degli introiti doganali derivanti dalla SACU (Southern African Costums Union) hanno prosciugato le casse del regno. Inoltre l’impennata della disoccupazione in Sudafrica ha ridotto il flusso di rimesse degli swazi residenti a Johannesburg e a Durban, concorrendo al calo della domanda interna.
Dulcis in fundo, nel 2010, sfiancata dagli incendi e dal calo globale dei prezzi, ha chiuso i battenti anche la storica industria della polpa di legno: un vero shock per una nazione orgogliosa delle sue foreste.
Naturalmente la crisi swazi non è dovuta solo a fattori esterni. Tutt’altro.
A soffocare l’economia del regno è anche una pubblica amministrazione elefantiaca. Basti pensare che gli stipendi dei dipendenti statali costituiscono il 18% del Pil, un dato con pochi eguali nel resto d’Africa.

Una prova dell’ipertrofia burocratica swazi si trova sulle mappe. A differenza di quasi tutti gli Stati del mondo, lo Swaziland non vanta una, ma due capitali: Mbabane, capitale amministrativa e giudiziaria, e Lobamba, sede del Parlamento (in realtà il Sudafrica, con le sue tre capitali, batte tutti, però si tratta della prima economia continentale).
La corruzione, diffusa, frena investitori stranieri e imprenditori locali. Come ha ammesso lo stesso ministro delle finanze Sithole, non sono estranei alle tangenti nemmeno ministri e parlamentari. Non a caso nella classifica mondiale della percezione della corruzione il regno è al novantunesimo posto (su 178 Stati esaminati): Zimbabwe e Mozambico fanno peggio, ma Botswana, Sudafrica, Namibia e Lesotho assai meglio.
Di sicuro l’architettura costituzionale swazi rende difficile ogni riforma. Benché la Carta del 2006 definisca lo Swaziland “un regno unitario, sovrano, democratico”, esso non è certo una democrazia liberale come il Sudafrica. Anzi: i media lo definiscono “l’ultima monarchia assoluta d’Africa”, e secondo la Mo Ibrahim Foundation il regno è in fondo alla classifica continentale per “partecipazione e diritti umani” (fanno peggio solo Sudan, Chad, Eritrea, Libia, Guinea equatoriale e Somalia).
Al centro del sistema politico c’è il re, il quarantatreenne Mswati III. “Simbolo dell’unità e dell’eternità della nazione swazi”, nomina il primo ministro, due terzi dei senatori e quasi un sesto dei deputati. Sul trono dal 1986, Mswati è una figura potente e controversa. Negli anni ha alternato riforme (caute) e repressione (meno cauta: oltre l’8% del budget statale è per le forze armate). Amatissimo dalla maggioranza dei suoi sudditi, è accusato dai dissidenti di essere autoritario, paternalista e scialacquatore (la corte è famosa, anche in Occidente, per la sua dispendiosità).

Mswati sembra avere almeno un merito: essersi sempre speso per la pace e la stabilità. Grazie a una discussa politica matrimoniale (che include la poligamia: ha ben 13 mogli), il re si è imparentato con i maggiori clan swazi e perfino con la casa reale zulu, riuscendo a salvare il regno dalla guerra civile (Mozambico, fino al 1992), dalla dittatura militare (Lesotho, fino al 1993), dalla violenza politica (Sudafrica, fino al 1994).
In effetti lo Swaziland non è mai stato considerato un caso disperato, come la Somalia o la Repubblica centrafricana. Secondo l’Ibrahim Index of African Governance, che valuta la qualità dell’amministrazione dei 53 Stati africani, il regno è al venticinquesimo posto, e precede astri nascenti quali Kenya e Ruanda.
Negli ultimi anni anche l’attenzione per l’ambiente è cresciuta, come dimostra l’indice di forestazione swazi: uno dei più rapidi di tutta l’Africa.

Un eventuale default, tuttavia, non potrà che inasprire una situazione già difficile. A pagare saranno soprattutto i più poveri, cioè la maggioranza della popolazione.
Lo Swaziland è una nazione rurale, segnata da gravi diseguaglianze e da un’altissima disoccupazione. L’aspettativa di vita (tra le più basse del mondo) si attesta sui 48 anni, quasi quanto Sudafrica e Zimbabwe. L’AIDS è un flagello, che colpisce soprattutto i più giovani: un quarto degli swazi tra i 15 e i 49 è sieropositivo, così come una donna incinta su due.
Nel tentativo di salvare il regno dal collasso finanziario, il governo swazi ha iniziato a ridurre le spese, seppur non con lo zelo richiesto da FMI e AfDB. Pochi mesi fa Mswati III stesso ha riconosciuto la gravità della situazione, dichiarando: «In tempi difficili come questi la nostra forza-lavoro deve sviluppare una nuova etica del lavoro e una nuova mentalità.»
La forza-lavoro non sembra però disponibile ad altri sacrifici. E i sindacati dei funzionari pubblici sono già sul piede di guerra: non accetteranno né tagli ai salari né licenziamenti; sostengono che causa della crisi sono gli sprechi, l’incompetenza e la corruzione nelle alte sfere.

Tuttavia i tagli arriveranno, è solo questione di tempo.
Intanto l’ultima speranza per impedire il default è il prestito dal Sudafrica. Si parla, come è già stato detto, di un miliardo di euro. Tuttavia il governo sudafricano sembra riluttante, e una sua componente, il sindacato Cosatu, spalleggia apertamente i sindacati swazi nelle loro rivendicazioni.
In cambio del prestito Pretoria potrebbe chiedere allo Swaziland delle contropartite: per esempio nuove riforme politiche, e un maggior rispetto dei diritti umani. Ma se eserciterà la sua influenza moderatrice, lo farà con la massima cautela e discrezione: come ha spiegato a Linkiesta l’ambasciatore italiano a Pretoria, Elio Menzione, il Sudafrica non ama essere visto «come il fratello maggiore che vuole dare a tutti i costi lezioni ai fratelli minori.»
Alla fine il prestito quasi di sicuro arriverà, anche se di un’entità minore. «Credo che in questo momento l’obiettivo prioritario del Sudafrica sia evitare un’esplosione sociale in Swaziland, che inevitabilmente avrebbe delle ripercussioni sul Sudafrica – rileva l’ambasciatore. Perché la vera paura di Pretoria è «un’ondata incontrollata di profughi nel caso di un’esplosione sociale e di una repressione nel sangue delle proteste.»

Jan Duvenage, analista della Standard Bank, è dello stesso parere. «Il Sudafrica non può permettersi un altro vicino politicamente ed economicamente instabile (come lo Zimbabwe).» Qualche flebile segnale di speranza c’è: «Gli introiti derivanti dalla SACU, secondo il Tesoro sudafricano, dovrebbero aumentare nei prossimi anni fiscali. Potrebbero iniziare a migliorare già l’anno prossimo.»
Per il futuro dello Swaziland, che dipende dalle entrate doganali come non mai, bisogna solo augurarsi che sia vero. Nessuno vuole un nuovo Stato fallito. 

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