Ora alzano la voce. Dopo aver perso la partita per la poltrona più alta del Fondo monetario internazionale, i Bric si stanno imponendo come la realtà più florida dell’economia globale. Brasile, Russia, India e Cina sono il primo avamposto per imprenditori e investitori. Nel mondo mutato per sempre dal terremoto subprime, stanno diventando il porto sicuro, lontano dai timori sull’eurodebito e dall’impasse del debt ceiling statunitense. E stanno perdendo la pazienza sulla Grecia: inutile salvarla ancora, specie se è poi il Fmi a dover pagare per lei. Questo concetto, urlato a gran voce da Brasile e India, sta scuotendo il nuovo presidente dell’istituzione di Washington, la francese Christine Lagarde.
Il direttore brasiliano del Fmi, Paulo Nogueira Batista, ha lanciato un duro attacco alla comunità internazionale. Senza mezzi termini ha affermato che il secondo bailout di Atene rappresenta un fardello insopportabile per tutti i Paesi afferenti all’istituzione di Washington. «Costa troppo per gli Stati, costa troppo poco per il settore privato», ha detto il brasiliano. Gli ha fatto eco il suo corrispettivo indiano, Arvind Virmani, che ha espresso tutti i suoi dubbi intorno al salvataggio ellenico. «Non è una questione di liquidità, qui si parla di insolvenza», ha detto a muso duro Virmani.
Il Fondo monetario internazionale, nel bailout greco versione 2.0, arriverà a sborsare circa 36 miliardi di euro (51,83 miliardi di dollari). Troppo, secondo gli Emergenti. «Il Fmi sta diventando una banca d’affari, che vende e compra titoli, compie cartolarizzazioni e scende sui mercati obbligazionari», ha detto Nogueira Batista. Ancora più pesanti sono state le parole di Virmani: «La storia ci ha insegnato che se un Paese povero o in via di sviluppo ha bisogno di un prestito del Fmi, i Paesi ricchi glielo negheranno». Si riaccendono così i riflettori sul ruolo che dovrebbero avere gli Emergenti.
Era il 2001 quando venne coniato il termine Bric. «Entro dieci anni siederanno al tavolo dei leader globali», disse Jim O’Neill, numero uno di Goldman Sachs asset management. Così è stato, anche se c’è una generale riluttanza ad ammetterlo. Troppi sono gli interessi in gioco dei Paesi sviluppati. La transazione del potere geopolitico, tuttavia, è già avvenuta. Un esempio di questo sono le Borse asiatiche, che stanno raccogliendo i cocci delle unità di proprietary trading delle big firm di Wall Street, costrette a lasciare l’America per via di una regolamentazione troppo stringente per loro.
A dieci anni dalle prime parole di O’Neill, i Bric sono una realtà. Nonostante ciò, la lacune informative sono ancora troppo elevate. Come scrive Andrea Goldstein, senior economist dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), nel suo ultimo saggio sui Paesi emergenti (Bric, Il Mulino, 2011), c’è troppa disinformazione su questo universo che si muove già come «un’entità politica». Goldstein rimarca che «conoscere a fondo le dinamiche emergenti dell’economia mondiale dovrebbe costituire il miglior antidoto contro il declino». Proprio di declinismo, questa volta degli stessi Bric, ha parlato invece George Magnus, dal 1995 al 2005 capo economista di Ubs. Magnus è solito dire che «quindici anni fa se capivi qualcosa di geopolitica potevi già sentire il profumo delle spezie asiatiche che arrivava verso Wall Street».
E proprio lui ha coniato un termine che nel prossimo decennio sentiremo sempre più spesso, i Mikt. Messico, Indonesia, Korea del Sud e Turchia sono infatti quanto di più innovativo ed emergente che possiamo cogliere osservando lo scacchiere internazionale. In un saggio uscito lo scorso anno (Uprising: Will Emerging Markets Shape Or Shake the World Economy?, Wiley), Magnus si chiedeva in che modo avrebbero potuto convivere Paesi sviluppati ed Emergenti. La risposta è positivista: «Per entrambi si tratta di sopravvivenza. Nessuno dei due potrebbe esistere senza l’altro, è la simbiosi capitalistica». Le tensioni dei giorni nostri ci mostrano che non si è ancora giunti a questo livello.
La nomina della signora Lagarde alla poltrona che fu di Dominique Strauss-Kahn, avvertono i Bric, non è stato il frutto di una scelta utilitaristica, bensì politica. La riaffermazione della Francia come testamentaria del Fondo ha un retaggio che sa di colonie, ma non di sviluppo. Più che la presa di coscienza dell’esistenza di un mondo economico profondamente cambiato negli ultimi quattro anni, l’imposizione della Lagarde è stato il frutto del mantenimento dello status quo. Eppure i Bric, come i Mikt, sono vivi, pulsanti e floridi. Certo, subiscono anche loro i processi boom/bust, ma non si deve dimenticare cosa erano, cosa sono e cosa saranno. La Cina, conscia dell’immane bolla immobiliare, sta sterilizzando liquidità da oltre tre anni, anche nel tentativo di frenare l’inflazione. L’India sta facendo qualcosa di simile e continua a esportare cervelli nei migliori centri di ricerca mondiali.
L’incremento dell’incertezza globale è direttamente proporzionale al declino delle grandi potenze. È un ciclo che si è sempre vissuto e sempre si continuerà a vivere. «I Bric devono poter giocare un ruolo ben più importante di quello a cui ora sono relegati», ha detto il premio Nobel Paul Krugman nel 2007. Dopo subprime, Lehman Brothers, eurodebito e stallo sul debt ceiling, questo concetto assume un significato ancora più profondo.