Siamo messi così in Italia, che Bersani è un candidato debolissimo nella debolezza cronica del Partito Democratico (guardate come annaspa in mezzo agli scandali), e il Pdl è francamente impresentabile. In questi casi, uno che ha creduto nel maggioritario cosa fa: si spara (ma forse è eccessivo), si tura il naso montanellianamente – ma allora almeno c’era la Dc -, socchiude gli occhi come i bambini di fronte all’orco e si butta nel Terzo Polo per poi sputarsi allo specchio, o, povero lui, aderisce al progetto carceri di Tonino Di Pietro? Altre prospettive (politiche) – al di là delle contorsioni sentimentali del buon Nichi ben raccontate da Caldarola – non sembrano esservi, se non l’opzione comunque sempre valida nei momenti di disperazione. Cioè, il non voto.
Quando a un Paese tolgono la politica, sottratta mica per un colpo di mano ma con un lunghissimo lavoro di rifinitura, gli unici anticorpi che crescono naturali sono quelli che abbiamo sotto gli occhi, e che con una felice immagine il ministro degli Interni, Bobo Maroni, ha sintetizzato a Linkiesta nell’espressione Forcolandia. In questi momenti ogni paura è lecita: di un ritorno al passato, a quel ’92 così terremotato dai giudici, alla repubblica delle procure e via di litania in litania.
Quando le paure però diventano strutturali, allora è il momento di chiedersi se a qualcuno non faccia anche un po’ comodo rievocare quei cattivi tempi andati, per concludere che le giuste e legittime pretese dei cittadini non sono poi da tenere in gran conto, o comunque da prendere con le molle perché cavalcherebbero chissà quale onda giustizialista.
Prendiamo quei novecento e passa parlamentari. Al di là di rare e illuminate eccezioni, nei discorsi dei nostri parlamentari, nelle parole più in libertà, meno convenzionali, insomma quando sono liberati da fardelli d’aula o di commissione, potrete ascoltare sempre e solo un pacchetto di frasi pre-confezionate che loro smistano alla bisogna. E’ il classico vocabolario difensivo. La prima e più classica è che «fuori c’è un brutto clima». Capite, dicono che il clima brutto è fuori, tra i cittadini, tra le persone, che ormai scalpitano, che vorrebbero vedere sangue e teste che rotolano, che non sopportano più una certa politica. In questo modo, si banalizza il fenomeno. Una perfetta operazione di marketing. Non li sentirete mai dire pubblicamente «dentro c’è un brutto clima», perché questo coinvolgerebbe casa loro, la casa dove tutto si tiene.
Un’altra delle espressioni preferite e più abusate è “l’attacco alle prerogative del Parlamento». L’attacco, naturalmente, è sempre quello dei giudici, quando chiedono a un deputato di rispondere di qualche (presunta) malefatta. In questo caso, il malcelato senso delle istituzioni porta generalmente il politico a rifiutare in radice anche la sola possibilità che un “esterno” possa determinare i destini degli “interni”, rifacendosi disordinatamente a ciò che i padri fondatori concepirono come autonomia della politica rispetto agli altri poteri. Quando però la politica c’era.
Con raro punto di sintesi, qualche giorno fa Mario Landolfi, già parlamentare di An e adesso Pdl, aveva felicemente interpretato il sentimento suo e di tanti suoi colleghi. Non era un caso che fosse proprio il giorno di Papa, poi arrestato. «Finchè non si dimostrerà in maniera inequivocabile – ci raccontava alla buvette di Montecitorio – che là fuori, nelle piazze, nelle strade, il popolo vuole davvero la nostra testa, noi preferiamo difenderci dalla Procure rinchiudendoci nel Palazzo». Al di là delle emozioni per un accadimento così straordinario come la richiesta di arresto per un collega, quelle parole disvelano perfettamente il punto centrale di separazione tra la politica e i cittadini. E’ una perfetta narrazione sentimentale, e Vendola ci perdonerà per il piccolo furto lessicale. Raccontano, intanto, la vera identità di questa politica, che è costretta ad asserragliarsi nel Palazzo quando avverte un pericolo reale, come qualcuno di non meglio identificato che spinge alle sue porte. In questo caso, è un duplice bussare: bussano giudici con le loro carte e le loro richieste, bussano cittadini che chiedono conto di comportamenti, politiche sbagliate, condizioni economiche al limite della sopravvivenza.
Sono istanze molto diverse tra loro, confonderle in un unico calderone sarebbe tragico. Ed equipararle a quel ’92 che ormai ha fatto storia, almeno una disattenzione umana. Bettino Craxi, nella chiamata di correo di quel 3 luglio era già perfettamente consapevole di ciò che l’opinione pubblica pensava di quella classe politica. Non viveva sotto un pero, pur avendo i toni arroganti di chi si sente di un altro pianeta. E fu proprio perché sentiva perfettamente che la società era in completa ebollizione, che congegnò spettacolarmente il più grande abbraccio mortale della storia repubblicana. La grande differenza con i nostri tempi, è che se vi fate un giro in Parlamento quasi nessuno è in grado percepire il “grido” che arriva dalla società, ma quasi tutti sono in grado di percepire l’unico pericolo – quello delle procure – che paradossalmente li fa sentire ancora una classe dirigente viva. Anche se non vegeta.