Obama ha due giorni per evitare il fallimento Usa e lo sa

Obama ha due giorni per evitare il fallimento Usa e lo sa

Il tempo è finito. Se non ci sarà un accordo entro nelle prossime ore, l’America andrà in default. Il presidente Barack Obama parla apertamente di «rischio Armageddon» in caso di ulteriore stallo delle trattative coi repubblicani per l’innalzamento del tetto del debito, già superato in aprile. Da un lato, Obama e repubblicani discutono. Dall’altro, l’indebitamento continua a salire, ora è a 14.400 miliardi di dollari. In mezzo, le agenzie di rating che, anche in caso di accordo all’ultimo momento, potrebbe declassare il giudizio americano se il programma di consolidamento fiscale non sarà «concreto e soddisfacente». Washington sta quindi per perdere il rating AAA che lo ha sempre contraddistinto. Dopo, come per il fallimento di Lehman Brothers, si navigherà in acque inesplorate, quelle dell’insolvenza statunitense. Sono dieci anni che si discute del debt ceiling, il limite massimo del debito pubblico americano fissato dal Congresso. Si è sempre pensato che avere dei paletti sarebbe servito a evitare il disastro finanziario. E dire che questo limite era mastodontico, 14.294 miliardi di dollari. Eppure, le varie bolle della storia statunitense, dallo shock petrolifero degli anni Settanta alla crisi dot.com, avevano costretto le varie amministrazioni a fare i conti con gli stimoli fiscali, con il deficit spending per risollevare la crescita economica. Già nel 1995 si era parlato di un innalzamento, mai arrivato. Con la crisi subprime, nata nella primavera del 2007, il quadro è mutato per sempre. Gli stimoli sono stati tanti, troppi secondo alcuni.

Il Congresso ha calcolato che per stabilizzare il sistema bancario statunitense dopo la tempesta dei mutui subprime sono stati spesi circa 5.000 miliardi di dollari. Una cifra monstre che però ora si sta rivelando un boomerang per tutti gli Stati Uniti. Ora non c’è materialmente più tempo. Il presidente Obama, dopo il colloqui con John Boehner e Eric Cantor, cioè presidente e capo del Great old party della Camera, ha mostrato tutto il suo disappunto per lo stallo, l’ennesimo. «Il tempo a nostra disposizione sta finendo e spero di vedere una proposta seria del Congresso entro 24-36 ore per raggiungere un accordo solido», ha detto Obama dopo aver lasciato West wing in seguito a un duro scontro con Cantor. Tutto il nodo verte sul piano di austerity in salsa yankee, valutato dal presidente Usa in circa 4.000 miliardi di dollari. Troppo per i repubblicani, che invocano lo spettro dell’incremento delle tasse per far rallentare il processo di aumento del debt ceiling. Boehner e Cantor fanno leva anche sul totale dell’indebitamento americano, riportato più volte da Usa Today: 62.000 miliardi di dollari. In questa cifra rientrano i programmi Medicare (24.800 miliardi) e Social security (21.400 miliardi), il debito federale (9.400 miliardi), le pensioni militari (3.600 miliardi), le pensioni dei dipendenti pubblici (2.000 miliardi) e obbligazioni degli enti locali (5.200 miliardi), ormai vicine al collasso per l’insolvenza delle stesse municipalità. Troppo perfino per gli Usa. A invocare una coesione sono anche le autorità economiche.

Il primo a parlare apertamente di rischio insolvenza per gli Stati Uniti è stato il segretario del Tesoro, Timothy Geithner. «Un default, guardando a come stanno le cose, è assolutamente possibile e sarebbe un evento catastrofico», ha detto Geithner nello scorso gennaio. Parole che sono state ripetute più e più volte, senza che lo stallo terminasse. In questa settimana anche il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha esplicitato tutti i suoi timori in merito al fallimento americano. «Sarebbe una catasfrofe», ha detto Bernanke, riprendendo quanto detto da Geithner. La sua paura è che le ripercussioni economiche per gli Usa possano essere devastanti, tante sono le incognite derivanti dalla dichiarazione d’insolvenza di Washington. In giugno il presidente della Federal Reserve di St. Louis, James Bullard, ha ammesso che un default Usa potrebbe non essere gestibile: «È il più grande rischio globale esistente». Secondo Bullard «la situazione fiscale degli Stati Uniti, se non gestita correttamente, potrebbe trasformarsi in uno shock macroeconomico globale».

Ci sono poi le società di rating. Le tre sorelle dei giudizi – Standard & Poor’s, Moody’s, Fitch – sono mesi che avvisano Washington del rischio che si sta correndo. La più dura è stata Fitch, il mese scorso: «Se non alzate il tetto del debito entro il 4 agosto, il downgrade da AAA a B+ arriverà». Questo perché in quel giorno dovrà rifinanziare 87 miliardi di dollari in bond e non avrà la possibilità di farlo, se dichiarerà l’insolvenza. In pratica, l’America si ritroverebbe con lo stesso voto che poche settimane fa aveva la Grecia, con la differenza marginalmente rilevante che il debito ellenico è di 350 miliardi di dollari, non 14.400 miliardi. Negli ultimi giorni sia Moody’s sia Standard & Poor’s hanno abbassato l’outlook su Washington, rimarcando che il declassamento arriverà anche nel caso di accordo. «In assenza di un piano di consolidamento fiscale concreto, saremo costretti ad agire di conseguenza», ha detto S&P. Intanto, il mondo comincia ad attrezzarsi. Un mese fa la Cina aveva alzato i toni contro l’America quando i repubblicani avevano ipotizzato un soft default. «Non dovete giocare con il fuoco», è stata la risposta di Li Daokui, consigliere della People’s Bank of China. Del resto, Pechino possiede 1.152 miliardi di dollari di debito statunitense, secondo il Tesoro Usa. Il rischio concreto è che da lunedì possa iniziare la chiusura delle posizioni aperte sull’obbligazionario americano. In molti, come il maggiore fondo del mondo, Pimco, hanno già comunicato di aver modificato le proprie strategie su Washington: «Troppa incertezza sul futuro».

Per approfondire:

2 agosto 2011. L’America di Obama rischia la bancarotta

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