Ultimo aggiornamento 19.10
Un giorno in rosso, un giorno in nero. Questa settimana Piazza Affari è senza direzione. Lo stallo dei negoziati sul debito americano, l’attesa per la riunione di domani ad Atene, quando, stando ai ben informati, ci sarà un incontro operativo dell’IIF, la lobby delle banche comunitarie, per delineare con maggiore chiarezza in che modo saranno coinvolti i privati nel salvataggio greco, e il riposizionamento dei fondi obbligazionari americani, sono state le principali cause della nuova debacle del Ftse Mib, il principale listino italiano, che ha chiuso a -2,81%, maglia nera in Europa. Intorno alle 16.40 sono state sospese per eccesso di ribasso UniCredit e Mediobanca, che hanno chiuso rispettivamente a -4,14% e -4,78 per cento. Male anche Intesa Sanpaolo, che lascia sul terreno il 4,95%, Ubi il 5,74%, e il Banco Popolare -5,16 per cento.
Un’altra giornata di lacrime e sangue. Da inizio anno, i principali istituti di credito italiani valgono dal 20 al 30% in meno, e sul mercato obbligazionario, secondo molti operatori, ci sarebbero problemi di liquidità, la cui matrice è Oltreoceano: per fronteggiare un possibile default degli Usa, i fondi statunitensi stanno aggiustando le proprie posizioni sul debito italiano per avere liquidità sufficiente nel caso in cui, davvero, gli Usa andassero in default.
La corsa alle vendite non proviene soltanto dagli Usa. Stamani, come ha scritto il Financial Times, il colosso Deutsche Bank nei primi sei mesi dell’anno ha ridotto dell’88% la sua esposizione sul Paese, pari oggi a 997 milioni di euro rispetto agli 8 miliardi del semestre precedente. Bnp Paribas, il principale istituto di credito transalpino, ha annunciato che renderà noto l’ammontare delle sue operazioni in Italia all’approvazione della semestrale, il mese prossimo, ma ha lasciato intendere di averle ridotte in misura sostanziale rispetto ai dati emersi dagli stress test condotti dall’Eba, l’autorità di vigilanza bancaria guidata dall’italiano Andrea Enria.
Insomma, nell’incertezza, meglio liberarsi degli asset più rischiosi. Il che, dall’altro lato della medaglia – secondo alcuni gestori – rende il debito italiano maggiormente appetibile ai risparmiatori più aggressivi rispetto ai bond societari, preferiti fino a un mese fa in termini di rendimento.
Dietro alla debacle dei titoli bancari, tuttavia, ci sarebbe un trucchetto che potrebbe rivelarsi dannoso sul lungo termine. Secondo uno studio di Deutsche Bank, che si è basata sui risultati degli stress test , il 66% dei titoli governativi europei detenuti dalle banche italiane sono iscritti nel portafoglio Available for sale (AFS) e nel trading book, per un valore di 160,8 miliardi di euro. Una cifra di gran lunga superiore rispetto, ad esempio, alle obbligazioni elleniche, che il 60% degli istituti europei detiene nel portafoglio Held to maturity (HTM). Al contrario, le banche estere detengono l’80% dei bond italiani nel portafoglio trading e AFS.
Traducendo in italiano, significa che i titoli di Stato rientrano nelle attività immediatamente disponibili per la vendita (Available for sale) – iscritte, come le attività Held to maturity (cioè da tenere fino alla loro scadenza, come ad esempio un Btp decennale) nel banking book, ovvero nel novero degli asset impiegati nella concessione dei prestiti, a differenza del trading book, dove le risorse sono invece utilizzate per la negoziazione dei titoli sui mercati – delle banche italiane.
Secondo le regole contabili di Basilea III, tutti gli istituti di credito devono avere un coefficiente di patrimonializzazione (Tier 1, cioè il capitale azionario più le riserve di bilancio provenienti da utili non distribuiti al netto delle imposte) minimo del 6%, che si determina soppesando il patrimonio di vigilanza (Tier 1 + patrimonio supplementare) per il rischio di credito.
Il problema è che nel patrimonio di vigilanza è incluso il banking book. Quindi, per non creare degli squilibri in termini di Tier 1, a maggio 2010 Bankitalia ha diramato una circolare che consente di iscrivere a bilancio al valore di carico, cioè di acquisto, e non al valore di mercato, i titoli di Stato europei detenuti nel portafoglio AFS. Una misura per eliminare lo svantaggio competitivo che l’Italia aveva nei confronti di Germania, Gran Bretagna, Francia e Olanda, Paesi dove non è prevista (grazie all’applicazione dei criteri delineati dal Cebs, ora Eba, nel 2004) la deduzione delle minusvalenze sui bond nel patrimonio di vigilanza.
In parole povere, le svalutazioni sulle obbligazioni si fanno a livello contabile, quindi all’atto dell’approvazione del bilancio – non immediatamente – ma il flusso cedolare che ne deriva va a gonfiare il Tier 1 da subito. Se il debito italiano è in gran parte sottoscritto dagli istituti domestici, e se le obbligazioni nel portafoglio AFS sono valutate al prezzo di mercato (cioè non al valore di carico), le banche italiane sono fortemente esposte alle variazioni del valore delle obbligazioni italiane, esattamente ciò che sta accadendo in questo periodo. L’effetto di incertezza che ne deriva è facilmente riscontrabile guardando alla performance odierna di Piazza Affari. Per capire l’ammontare delle perdite, invece, bisognerà aspettare la prossima trimestrale. E forse, il prossimo autunno, più di qualche istituto sarà costretto a tornare sul mercato per raccogliere nuovi capitali.