Se ne sono andati

Se ne sono andati

Lucian Michael Freud

(8 dicembre 1922 – 20 luglio 2011)

Pittore di Londra, di oltre 88 anni, e di cui il Daily Mail, nel 1993, si chiedeva cubitale e in prima pagina: «Quest’uomo è il più grande amante di Gran Bretagna?». Il quadro di riferimento per quella domanda conteneva l’artista che lavorava, mentre un modello nudo lo stava guardando. I dati biografici restavano un contorno d’informazione: 15 figli sparsi, e riconosciuti, e avuti da diverse mogli e amanti amate.

Fra i molti spunti che Freud ha dato di se stesso c’è questo: «Per me la pittura è la persona». O questo: «Cerco il dentro e il sotto delle cose». Solo spunti, perché l’idea base era che i pensieri di un artista dovessero farsi vivi «non più di quanto Dio faccia in natura». Le idee, le definizioni, su di lui e sulla sua arte, sono note e un po’ lo imprigionano: il più grande «figurativo» del suo tempo, un «realista radicale che ha messo a disagio la critica formalista». Più libera, ed esatta, un’altra sintesi, secondo cui Freud ha documentato «the grotesque glory of the human body».

Dipingeva lentamente, come Leonardo, e con una certezza di scelte sui soggetti e su dove ritrarli: «Il mio lavoro viene fuori da persone che mi interessano e a cui tengo, in stanze dove vivo e che conosco». Parlava della loro «co-operation», ma era una citazione quasi pudica, fatta per dire come si arrivava, insieme, al quadro, all’opera. Quelle persone erano i suoi amici, o le sue amiche, o conoscenti più o meno intimi, gente di ogni età, e di tutti i pesi o taglie, o la sua prima moglie, o sua madre nella malinconia della vecchiaia (The painter’s mother resting III, 1977), e i loro animali domestici, i cani, i gatti, e le loro piante. E anche lavandini che gocciolano lasciando una pozza stabile, tappezzerie malandate, letti quasi clinici, poltrone e divani apparentemente senza carattere. Non c’è sociologia, se non indiretta, in quelle scene, che spesso sono capolavori (come Paddington interior, Harry Diamond, 1970). Anche se il clima mette insieme tante specialità inglesi: un’attitudine «Bohemian of the old school», quadri di un Paese da dopoguerra ancora razionato, visi rosati, e popolari (Head of the big man, 1975) come una sequenza di eroi comuni in un film di Ken Loach.

C’è invece, e soprattutto, inner life, estrema vita interiore, la cui massima espressione sono i corpi, spesso nudi, di chi vive in quelle stanze. Sdraiati, che dormono, rannicchiati, col braccio a elle sopra gli occhi, con le gambe aperte, uomini e donne, ogni tanto con un cane magro a fianco (Double portrait, 1985-86), o vicini, in una siesta di coppia (Naked man with his friend, 1978-80). Con gli sguardi al soffitto, o di scorcio, o assorti.
La «carne», come la chiamava Freud, dalla testa ai piedi. E un impegno accanito e pieno di compassione nel cercare di capirla. Se, come è stato scritto, Lucian Freud ha «ridefinito l’arte del ritratto» (e dell’autoritratto), lo ha fatto sostituendo il corpo all’anima come titolare di quel «dentro e sotto le cose», e quindi come soggetto già pronto, senza bisogno di passaggi simbolici. E anche quando qualcuno di quei soggetti diventa «modello», per ragioni di massima committenza, Freud lo sveste o lo svela con un terzo occhio degno di Tiziano, o di Courbet: il magnifico ritratto del collezionista Heinrich von Thyssen-Bornemisza, chiamato Man in a chair (1983-85) fa vedere, nel fondo, un triste ricchissimo con lo sguardo fisso e delle mani fra le più belle della storia della pittura. O Elisabetta II, che sembra deformata, ma è invece uniforme a un qualsiasi viso di donna inglese, anziana, e della classe media. Cioè regina di tutti (per quel ritratto, del 2002, il fotografo di corte, imbestialito, aveva detto che Freud meritava di essere spedito nella Torre di Londra).

Con un colpo di introspezione che ognuno potrebbe far proprio, Lucian Freud ha osservato come tutti noi «conosciamo le nostre facce, le guardiamo ogni giorno nelle foto, o specchiandoci, ma non scandagliamo i nostri corpi allo stesso grado. A meno di non essere modelli professionali – ma io non li uso – o persone estremamente narcise, che non posso usare». Probabilmente senza narcisismo, diceva di non aver avuto maestri ispiratori, anche se un incontro con Giacometti, a Parigi, nel 1946, deve essere stato essenziale. Qualche anno dopo, Francis Bacon lo spingeva a dipingere «in modo più libero», e più «morbido» soprattutto in rapporto ai corpi. Bacon sarebbe stato radicale ed estroverso, disfacendo quei corpi. Freud sarebbe stato altrettanto estremo di fronte alla loro intimità. Già abbastanza esplosiva da non richiedere una loro ulteriore disintegrazione.

A Berlino, dove era nato e vissuto fino agli 11 anni, abitava con i suoi genitori, in una bellissima casa vicino al Tiergarten, e d’estate, in vacanza, la famiglia si spostava sul Baltico, sull’isola di Hiddensee. Suo padre, architetto, si chiamava Ernst Freud, sua madre Lucie Brasch, ed era figlia di un mercante di granaglie. Le origini paterne erano austriache e morave. Con l’arrivo al potere di Hitler, e del razzismo di Stato, i Freud ebbero la prontezza di partire subito per la Gran Bretagna, nel 1933, e di diventare tutti, in poco tempo, cittadini inglesi. Lucian Freud avrebbe sempre manifestato il suo entusiasmo di vivere a Londra. Suo nonno paterno, di 82 anni, prima di dover lasciare Vienna (dove abitava e lavorava al numero 19 della Berggasse) dopo l’Anschluss nazista del 1938, riceveva il fotografo Edmund Engelmann facendosi ritrarre, dentro il suo ambiente, in mezzo alla sua vita e a tutte le cose che l’avevano sempre caratterizzata. Portava gli occhiali (lenti da miope) ma in una di quelle foto, un primo piano, se li era tolti. Un ritratto sconvolgente, che era «la persona» in quel momento: disarmata e già in esilio. In quella foto, Sigmund Freud, è così «dentro alle cose», da poterlo immaginare come un soggetto, all’estremo della verità e della compassione, di suo nipote Lucian Freud. 

Henry Coffin Carlisle

(14 settembre 1926 – 11 luglio 2011)

Scrittore americano, di San Francisco, California, la stessa città dove è morto a 84 anni per complicazioni polmonari. Le sue radici, sempre marinare, appartenevano all’altra costa degli Stati Uniti: ai luoghi di Herman Melville, all’isola-porto di Nantucket, Massachusetts, e alla memoria di un suo bisnonno, mercante di cetacei e costantemente imbarcato sulle baleniere. Henry è stato anche definito «supporter of Oppressed Writers», ma qualcuno fra quegli scrittori avrebbe potuto vederlo come un marinaio che, dopo averli avvistati, li traghettava, o li traduceva, fra milioni di persone disposte a sentire che cosa raccontavano.

Almeno tre scrittori – due russi e un francese (non «oppresso», ma già molto attaccato) – potrebbero raccontare il loro approdo all’America e alla lingua inglese, partendo dal fatto di aver incrociato gran parte dei propri tempi con il comunismo realizzato, o almeno con il suo ideale. Ambedue variamente smentiti e denunciati da quegli autori con esiti decisivi: galera, esilio, ma anche libri, letteratura, a volte visioni in avanti. Tutto questo ha molto coinvolto Henri Carlisle, anche perché faceva parte del Pen International, l’associazione mondiale, e assai selezionante, degli scrittori (della sezione americana di quello stesso club sarebbe diventato presidente, nel 1976). E così lui potrebbe direttamente fare da narratore di tre soggetti costruiti così: l’avvistamento dell’opera di Aleksandr Isaevič Solženicyn, il suo passaggio ad Ovest, e la difficoltà di relazione con un carattere come quello, integralmente “grande russo”.

E poi: il battagliare con passione (oltre che con calcoli d’immagine e di mercato) per tirare fuori dalle carceri moscovite Andrej Alekseevič Amalrik, un arrestato a ripetizione nel suo Paese, ma dotato di occhiate profetiche. Quando, nel 1969, grazie a Henry Carlisle, uscì tradotto il suo celebre pamphlet analitico Will the Soviet Union Survive Until 1984?, l’ironia dilagò su quel titolo orwelliano, e ben pochi presero sul serio quella domanda retorica, dove l’unico errore stava nell’anticipo – di sette anni – della morte dell’Urss.
Infine, il piacevole sforzo di far pubblicare, dall’editore Knopf, Albert Camus, partendo dal saggio Il mito di Sisifo. Camus era morto da poco – 1960, un incidente di macchina insieme al suo editore Gallimard –, era l’homme révolté ex comunista, e schierato ben prima del 1956 dalla parte degli operai e degli studenti dell’Est europeo. Era anche il Premio Nobel 1957 per la letteratura, che in uno dei suoi Discorsi di Svezia raccontava, o invitava a riflettere in questo modo: «Un saggio dell’Oriente chiese, un giorno, nelle sue preghiere, che la divinità gli risparmiasse di vivere un’epoca interessante. Non essendo noi saggi, la divinità non ci ha risparmiato, e viviamo in un’epoca interessante. Che, in ogni caso, non ammette che possiamo disinteressarci di lei. Gli scrittori d’oggi lo sanno. Se parlano, eccoli criticati e attaccati. Se, diventati remissivi, tacciono, non si parlerà altro che del loro silenzio, per rinfacciarlo bruscamente a tutti loro».

Un quarto scrittore – sempre russo, un grande espressionista – sarebbe entrato, ogni giorno, nella vita più immediata di Henry, oltre che nelle sue azioni d’intelletto e di battaglia. Ci sarebbe entrato per interposta persona. O discendenza. E anche lui con la caratteristica di aver assaggiato, seppure per poco, il comunismo in un solo Paese. Leonid Nikolaevič Andreev era stato sfortunato a morire a 48 anni, nel 1919, ma quella sorte gli aveva evitato di diventare un probabile oppressed writer della prima ora. Era anche il nonno di una nipote russo-americana, Olga Andreeva, di professione pittrice e traduttrice, oltre che moglie di Henry Carlisle. La coppia andava di pari passo quasi su tutto, e con la passione per l’universo russo, sovietico, e antisovietico, sempre da esplorare insieme: nel 1978, avevano fatto una traduzione dell’Idiota di Dostoevskij, nel 1999 avrebbero scritto il racconto The Idealist, ambientato nel tempo della rivoluzione, e un trentennio prima, nel 1968, Henry firmava da solo (ma sicuramente dopo una revisione totale di Olga) un altro racconto – The Contract – il cui centro era l’appartamento svizzero già abitato da Lenin quando era in esilio.

Avrebbero affrontato in due anche Aleksandr Solženicyn, ma si può anche dire che lui, da solo, ha dovuto vedersela con quella coppia. In particolare con lei, russa, americanizzata, e nipote di Andreev. Un confronto da guerra gelida sul terreno della traduzione, dei diritti, e della pubblicità derivata, per le due parti, da quello scontro. Le cui tappe sono state queste. Henry incontrava a Mosca, nel 1967, lo scrittore, accordandosi con lui per contrabbandare all’Ovest due testi: Il primo cerchio e Arcipelago Gulag. Una volta passati, Henry e Olga li traducevano trovando un editore. La guerra sarebbe scoppiata perché Solženicyn da Mosca (sarebbe stato espulso nel 1974, e poi esule nel Vermont degli Stati Uniti dal 1976) accusava i Carlisle di aver raffazzonato la traduzione e di averlo finanziariamente e «con modi molto venali» imbrogliato. Ne scrisse anche in una memoria biografica, a cui Olga reagì con un breve libro sul caso, scritto da lei sola. La coppia intentava anche una querela per diffamazione contro lo scrittore, e una corte federale di San Francisco chiudeva la querelle invocando, un po’ genericamente, «la libertà di parola». Era la pietra sopra un caso che Olga, in un’intervista del 2004 al San Francisco Chronicle, avrebbe definito «acrimonioso, ma utile alla pubblicazione dei libri di Aleksandr Solženicyn, e all’eventuale assegnazione del Nobel» (che avvenne nel 1970, anche se lo scrittore lo avrebbe ritirato solo quattro anni dopo, una volta fuori dal suo Paese).

Un altro celebre giornale americano, il Christian Science Monitor, di Boston, aveva molta stima di Henry Coffin Carlisle scrittore: di un suo racconto sottolineava «l’eccezionale finezza e profondità». Parlava di The Jonah Man, del 1984: scritto in forma di diario, e dove il capitano della baleniera Essex, naufragata nel 1920, racconta la sopravvivenza di venti scampati, che arrivano anche a cibarsi dei compagni morti. Quell’incidente, vero, era lo stesso che aveva fatto venire voglia a Melville di scrivere un grande racconto di mare, con cetacei, baleniere, e un capitano molto particolare. Sulle tracce a ritroso di Moby Dick, Henry firmava un intermezzo letterario molto americano e East Coast. E lo faceva proprio in quel 1984, avvistato un po’ prima del tempo da Andrej Amalrik come l’anno del naufragio dell’Unione sovietica. E del comunismo realizzato.  

Şerban Cantacuzino

(4 febbraio 1941 – 4 luglio 2011)

Attore romeno, nato a Bucarest in piena guerra mondiale, e sotto le Guardie di Ferro filonaziste. E cresciuto, anche artisticamente, sotto il regime ferreo di Nicolae Ceauşescu. Con un cognome che in Italia si scrive anche Cantacuzeno e che gli studiosi di storia bizantina conoscono bene. Perché coincide con una celebre famiglia principesca di Costantinopoli, con un ramo trasferito in Romania, dove quel nome ha tuttora un peso storico, patriottico. Il Cantacuzino di questo brevissimo ricordo aveva poco più di 70 anni, ed è morto a Parigi.

Dove viveva dal 1990: un cambio di set veramente particolare, dato che quell’anno era il primo senza Ceauşescu, anche se non proprio senza i resti del suo regime. Al cui interno una scuola di cinema, con intelligenze e bravure notevoli, non è mai venuta a mancare. Uno dei documentari più originali e più belli degli ultimissimi tempi l’ha realizzato, nel 2010, il regista Andrei Ujică, che ha oggi 60 anni: si chiama The autobiography of Nicolae Ceauşescu, e per circa tre ore si resta appiccicati a un montaggio geniale di immagini di repertorio, poco viste, dove il dittatore si commenta da solo, dentro i 24 anni del suo potere.

In uno dei tanti frangenti del film, la retorica di regime si scatena, relativamente innocua, mostrando Ceauşescu che assiste a una festa carpatica con attori e comparse vestiti in costume valacco del Cinque-Seicento. Una rappresentazione patriottica che fa pensare a come Şerban Cantacuzino (che quasi sicuramente lì non c’è, nonostante fosse bravo anche da non protagonista) non avesse bisogno di entrare in uno di quei ruoli, dal momento che l’aveva incorporato dalla nascita. Come discendente diretto del suo omonimo Şerban Cantacuzino, Principe di Valacchia (1640-1688), celebrato per un bel po’ di meriti offerti al suo Paese nel XVII secolo: aveva introdotto il mais, con coltivazioni organizzate, partecipato alla campagna anti ottomana culminata con l’assedio di Vienna, creato la prima scuola di principato, cioè di Stato, a Bucarest, e ordinato la pubblicazione della prima Bibbia in romeno. Chiamata ovviamente “Bibbia Cantacuzina”. 

Şerban, il discendente (la parentela era di 16° grado), ha avuto altri destini, e una famiglia già teatrale e piuttosto sofisticata: il padre Ion, medico di formazione, fu commediografo, sceneggiatore e critico per mestiere. E la nonna, Maria Filotti, attrice più che nota. Scegliendo anche lui il ramo, Şerban ha debuttato presto: aveva 11 anni, nel 1952, quando il Teatro Nazionale di Bucarest lo applaudiva nel Principe e il povero, di Mark Twain, dove recitava a fianco della nonna.
Un Cantacuzino che diventava popolare, nella Repubblica popolare (l’aggettivo «socialista» arriverà nel 1965) di Ana Pauker e Gheorghe Gheorghiu-Dej. Poco più di dieci anni dopo, il suo destriero di battaglia sarebbe stato Riccardo III, di Shakespeare, in varie edizioni. La più celebre, nel ruolo del principe Edoardo, andata in scena nel 1963 al Teatro Militare di Costanza. 

Più avanti avrebbe spaziato, diventando relativamente “commerciale” (si era in climi pianificati): cicli televisivi, film con parti prime, seconde, o terze, e anche musical. Dell’angoscia che lo spingeva a essere così attivo ha dato una definizione piuttosto brillante: «A volte si recita molto e non resta niente. Fare l’attore è come scolpire lo yogurt».
Poteva muoversi dal suo Paese, perché il cinema francese, soprattutto, lo scritturava, ogni tanto, per parti che definiremmo “di genere”: storiche, ma anche brillanti. In una delle sue ultime foto, a Parigi, si presenta come era: un bell’uomo, elegante, ancien régime, charmeur, con i capelli grigi un po’ sul collo e con qualche ondina, magro, e che poteva stare bene dappertutto. Un attore d’altri tempi, un po’ Café Society. Quel tanto che bastava per farsi quasi ammirare, come una porta aperta sul mondo, da un regime ufficialmente di “operai e contadini”. O come un incensurabile Cantacuzino.

Il quadro di questa settimana: «Rabbit Ears», della pittrice statunitense Alyssa Monks, olio su tela di lino, 2003.

Rileggi gli obituaries delle scorse settimane:

Sir Roy Redgrave, Tom Gehrels,  Itamar Franco. Il cugino imperial-militare di Vanessa, l’astronomo che ci ha fatto familiarizzare con gli asteroidi e la possibilità che distruggano la terra, il presidente brasiliano alle prese con cinque pretendenti imperiali.

Ottone (Otto) d’Absburgo-Lorena, Cy Twombly, Humberto Leal Garcia Jr. L’ultimo imperatore, un pittore inconsueto, un condannato a morte negli Usa, nonostante Obama.

L’obituary di Kitty Epstein Godley, moglie di Lucian Freud

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