«Invece dello scudo fiscale, si sarebbero potuti ottenere risultati migliori mediante un accordo con la Svizzera, sul modello dei recenti provvedimenti adottati da Germania e Inghilterra». Tommaso Di Tanno è docente di Diritto tributario all’Università di Siena e fiscalista chiamato in questi giorni come esperto dalla Commissione Finanze del Senato nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla riforma fiscale. Sull’evasione fiscale spiega: «Per combatterla, non occorre un impianto normativo più semplice, ma una pubblica amministrazione più competente». Critico, invece, sull’Agenzia delle Entrate: «Il giudizio è positivo, ma sulle Pmi dovrebbe avere la stessa aggressività che mostra verso le grandi imprese».
Da Madrid, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha dichiarato ai microfoni di Radio Anch’io che: «Sono impressionanti le cifre sulla evasione». Ieri, come ha scritto il Corriere della Sera, Regno Unito e Svizzera sono in procinto di approvare un accordo per far emergere i capitali parcheggiati nel Paese elvetico, così come la Germania in precedenza. E l’Italia?
Premesso che i numeri citati dal Corriere, che parla di un centinaio di miliardi sfuggiti allo scudo e mai dichiarati dai contribuenti italiani, siano stime ipotetiche, seppure con qualche legittimità, l’accordo tra Svizzera e Germania, e tra Svizzera e Gran Bretagna, sono replicabilissimi. Anzi, non capisco come mai l’Italia si ostini a varare scudi fiscali quando attraverso degli accordi internazionali si possono ottenere risultati migliori. Basti pensare all’imposta prevista dall’accordo svizzero-tedesco: una tassazione tra il 19 e il 34% dei capitali fatti rientrare e un’imposta del 26% sul rendimento di quelli rimasti anonimi. Cifre di gran lunga superiori al 5% della tassazione dello scudo. Di questi tempi che si è tornato a parlare di scudo bis, si dovrebbe spingere verso un accordo del genere.
Perché le trattative con la Svizzera si sono interrotte?
Questa domanda la deve rivolgere a Tremonti, io ho la stessa curiosità. Mi lasci aggiungere che lo Stato italiano è quello con cui Berna fa più affari, soprattutto rispetto all’Inghilterra. Trovo sorprendente che un ministro non ci abbia pensato, e in questi giorni abbiamo avuto la prova provata che ci sarebbero state altre vie per portare un gettito fiscale maggiore per lo Stato italiano, se fino a qualche settimana fa ci potevano essere dei sospetti, oggi è la realtà: bisogna combattere l’evasione fiscale.
L’Agenzia delle Entrate sta facendo un buon lavoro?
Dunque, la mia valutazione è che stia complessivamente facendo un buon lavoro. Tuttavia bisogna distinguere tra grandi imprese e Pmi. Nei confronti delle grandi imprese, talvolta, il suo approccio è fin troppo aggressivo. Ovviamente, fanno bene a perseguire ipotesi di evasione e di elusione fiscale, ma tendono a vedere il marcio anche dove non c’è. Nei confronti delle Pmi l’erario disponde di strumenti con minore efficacia. Un esempio lampante: l’impossibilità di poter ridurre le transazioni in contanti. Il nero si fa con il contante, e fino a giugno di quest’anno sotto la soglia dei 12.500 euro non vigeva l’obbligo di registrazione delle transazioni. Il cui ammontare era talmente elevato da ridurre al minimo la capacità accertativa dell’amministrazione finanziaria, che non può quindi avere il piano riscontro della loro operatività. L’aggressività negli accertamenti va applicata a tutti, ma non è stato fatto. Perché chi ha partita Iva vota per i partiti che sostengono la maggioranza di governo, mentre l’impresa vota con poche teste.
Capitolo elusione fiscale: il fiscalista Victor Uckmar diceva che non è poi così difficile stanare le società di capitale autentiche e quelle di comodo. Come si fa, nella pratica?
Onestamente, non penso sia facile. Perché chi elude il fisco lo fa con una certa accortezza, cercando di non farsi scoprire. Sfuggire agli accertamenti richiede grande conoscenza di come funzionano i mercati e i paradisi fiscali. Ci vuole sagacia per mettere in piedi un’operazione economica del tutto inesistente, altrimenti l’Agenzia delle Entrate non avrebbe difficoltà di accertamento, e non ne nascerebbero ogni volta lunghi contenziosi, che si risolvono quasi sempre con una transazione. Se si vanno a vedere gli accertamenti effettuati per esempio nei confronti delle grandi banche come il dividend washing e la duplicazione dei crediti, si tratta di operazioni complesse, con una contrattualistica intricata e difficile da decodificare.
La modulistica italiana per la dichiarazione dei redditi è molto complicata, così come le normative tributarie. È necessaria una riforma semplificativa?
Personalmente provo una certa diffidenza sulle semplificazioni normative. La semplificazione maggiore possibile la si ottiene costruendo un buon rapporto tra amministrazione finanziaria e cliente. L’F24 diventa semplice se il cittadino può avere un accesso diretto ai funzionari dell’amministrazione finanziaria. Al contrario, se non rispondono, o non sono competenti, o lavorano a compartimenti stagni il problema diventa inevitabilmente complesso. Non è un problema di norme: esaminando l’impianto italiano rispetto a Germania, Francia e Stati Uniti, non risulta più complicato, anzi. Le disposizioni tributarie non sono certo poemetti, contengono espressioni specifiche incomprensibili per comuni mortali, che necessitano di esperti. Non si tratta di introdurre norme più leggibili, ma in definitiva nel formare una pubblica amministrazione competente in grado di spiegarle ai contribuenti.