Colpa dell’Italia se ora è succube della Germania

Colpa dell’Italia se ora è succube della Germania

Sembra proprio che il ventunesimo secolo non sarà solo l’epoca della Cina, ma anche della Germania. Sarà una sfida tra il drago rosso e la corazzata tedesca. Colpita duramente dalla crisi del 2008, la “Panzerschiff”, la corazzata, ha saputo riscattarsi nel 2010, con una crescita “asiatica” al +3,6% e il più basso livello di disoccupazione dalla riunificazione del 1991. Oggi la corazzata interviene anche come scialuppa di salvataggio per i governi europei in difficoltà: dai voleri dell’ammiraglio Merkel sono dipesi gli aiuti alle economie in affanno. Con gli Stati Uniti in preda alla partigianeria politica e una Cina con problemi di inflazione e bilancio locale, la Germania è l’unico punto di riferimento stabile per evitare una nuova crisi mondiale.

È chiaro che questo ruolo per i tedeschi non è dettato tanto da spirito di sacrificio, quanto da opportunità. La politica estera nelle democrazie non è decisa dai principi, ma dai vantaggi che si possono trarre in merito alla politica interna – almeno secondo gli elettori. Angela Merkel è un animale politico estremamente attento agli umori del pubblico, come dimostrato dalla retromarcia clamorosa in fatto di nucleare, o dalla tiepida critica al ministro copione Karl-Theodor von Guttenberg, comunque popolarissimo. I tentennamenti iniziali in merito ai salvataggi sono stati dovuti al timore che la spesa aggiuntiva fosse criticata dai tedeschi: doveva prima diventare chiaro che l’alternativa, quella del “non-intervento”, avrebbe scatenato una crisi furiosa.

Non crediamo nella teoria che lo scivolo italiano sia frutto di una strategia tedesca premeditata. È vero: tra gennaio e giugno di quest’anno l’esposizione di Deutsche Bank sui titoli italiani è scesa da 8 miliardi a poco meno di un miliardo di euro. La Germania dovrà finanziare gli acquisti della Bce, organismo per il quale nel 2011 dovrà mettere a disposizione la dotazione di 212 miliardi di euro. 

Vero è che, alla fine, è emerso come il sistema-euro abbia avvantaggiato la Germania, perché in confronto alle sue esportazioni la valuta continentale si è apprezzata solo in maniera modesta, o comunque in modo limitato rispetto a quanto non avrebbe fatto il marco. Ma anche nell’ipotesi in cui alcuni soggetti tedeschi abbiano tratto profitto dalla crisi italiana, non ci possiamo lamentare. Non possiamo pretendere “assistenzialismo internazionale” dai tedeschi, perché ogni aiuto giunge a un prezzo. In questa situazione ci siamo cacciati da soli: l’incapacità di ribellarsi a una legge elettorale che impone una classe politica incompetente, il disinteresse per la sciatteria nella gestione della cosa pubblica, una generazione che in vent’anni ha distrutto il benessere nazionale – seguita da una generazione che fugge o che pascola in un deserto occupazionale – ci hanno ridotto nello stato di dover “chiedere aiuto”. Signori, la Germania non è il Veneto: se abbiamo problemi di conti, i soldi ce li faranno pagare carissimi.

Ci dovremo adeguare al modello tedesco. Al contrario di quello che molti pensano, la vera forza della Germania non sta nell’assistenzialismo, che negli ultimi anni è stato pesantemente ridotto. Il sistema tedesco è un modello basato sulla specializzazione tecnica, che si ottiene dopo una selezione fin troppo spietata. Prima della fine delle elementari (in Baviera a maggio del quarto anno di elementari) viene deciso se il futuro degli alunni porta al liceo, alla scuola di formazione professionale (Realschule) o a un istituto superiore per mestieri tecnici (Hauptschule). Solo il liceo porta direttamente all’Università: non ci sono Tar, ricorsi o dimostrazioni di piazza che tengano. Nelle imprese comanda la “pedanteria” degli ingegneri, e c’è un’etica profonda orientata al rispetto della specializzazione accademica.

Soprattutto, c’è un senso più diffuso di tutela del bene pubblico, ed è qualcosa che avremo molte difficoltà a imparare. Tutto nasce dall’interesse dei cittadini: in Germania c’è il mercato editoriale più vasto d’Europa, con separazione tra testate “alte” (Frankfurter Allgemeine Zeitung e Süddeutsche Zeitung, che trattano il gossip come se fosse etologia dei primati) e cartaccia (Das Bild).

Inoltre, la politica industriale è vera politica industriale. Il caso più eclatante è quello delle energie rinnovabili: gli incentivi per il fotovoltaico sono stati introdotti molto prima degli altri paesi, creando il settore produttivo più avanzato al mondo, insieme a quello giapponese. Ma nel 2010 ci si è accorti che le installazioni procedevano troppo rapidamente, e il paese era diventato importatore netto di pannelli – anche dalla Cina. I tagli agli incentivi sono stati immediati e diretti, senza dar troppo ascolto alle lamentele tipo «aiuto distruggiamo il nostro futuro energetico!». L’interesse nazionale ha prevalso su quello dei singoli gruppi.
In Italia sembra però svilupparsi un curioso sentimento di rassegnazione, da popolo dominato. Abbiamo avuto austriaci, arabi, spagnoli: adesso avremo i tedeschi, più presentabili rispetto a precedenti esperienze, e per gran parte riscattati dall’atroce passato. Il nostro sentimento nazionale è ridotto a un Sud che si lamenta di essere stato “conquistato” dai piemontesi un secolo e mezzo fa, e per questo, davvero, non ce la fa a diventare un economia moderna. Il Nord è rappresentato sui media da un signore che fa le pernacchie e usa un linguaggio degno di Renata Polverini. Non possiamo pretender nulla dai tedeschi: possiamo solo esser loro grati.

*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam