È ora che anche le banche italiane facciano la loro parte

È ora che anche le banche italiane facciano la loro parte

I titoli emessi dallo Stato italiano sono troppo rischiosi. Il rendimento richiesto è quindi più alto rispetto a quello preteso sui titoli emessi da Stati finanziariamente più solidi. Qualcosa occorre fare per riequilibrare la situazione e su ciò la condivisione è unanime, ma solo a partire dal giorno in cui si è visto che il calo di fiducia era così forte da provocare vendite a catena. Il problema si poteva avvitare su se stesso. Anche i super ottimisti hanno deciso che non era il caso di continuare la dissimulazione dei problemi, e ciò è spaventoso.

L’unanimità è solo sul fatto che occorre intervenire. Sul come intervenire ovviamente ci sono opinioni diverse. L’opinione del governo, quando sarà effettivamente in grado di portare a sintesi le varie idee che ci sono in quell’ambito politico, è quella che conta. Le linee di azione sono potenzialmente tre: rifinanziare il debito italiano attraverso titoli emessi dalla Bce; tagliare le spese; aumentare le entrate, con nuove tasse sul reddito e/o sul patrimonio. Una strategia di rapido sviluppo sarebbe la quarta strada. Ma nessuno ci crede.

La prima strada è favolosamente indolore. È possibile emettere degli eurobond e che vadano a sostituire i titoli dei singoli Stati, che in alcuni casi gli investitori non vogliono più comprare direttamente. Siccome il rischio degli eurobond è molto più basso rispetto al rischio che non ripaghi il Tesoro italiano, gli investitori non pretenderebbero i 300 punti di spread che adesso pretendono sul Btp. Il mercato assorbirebbe i nuovi titoli e fornirebbe al ministro italiano dell’Economia tutto il tempo che serve per sistemare le cose. Questa strada è ottima, ma non si realizzerà. Per due ragioni. La prima è che le autorità europee ci dicono che noi italiani abbiamo preso atto delle difficoltà solo quando i mercati ci hanno sanzionati; con uno strumento come gli eurobond allora non ci sarebbero più elementi che ci spingerebbero seriamente a porre rimedio alla situazione. Con gli eurobond in azione torneremmo a raccontarci che l’economia italiana è la migliore.

I mercati finanziari hanno tanti difetti, ma hanno il pregio di non consentire ad un governo di imporre il suo punto di vista, quando irragionevole. Gli eurobond corrispondono a un antidolorifico somministrato per superare un problema di salute. Si supera il sintomo sul periodo breve; non altro. Il nostro medico non ci darà l’antidolorifico. La seconda ragione è che gli eurobond sono un mezzo per “collettivizzare” un problema. Gli squilibri causati dalla dissennata politica di bilancio degli italiani verrebbero pagati da governi che non hanno speso in deficit. Insomma, ognuno deve sistemare i problemi suoi. Gli eurobond non agiscono così e quindi non ci possiamo aspettare che sia attuata.

La seconda strada è il taglio delle spese. La terza è l’introduzione di nuove tasse. Occorre fare queste cose tenendo conto di un’esigenza di giustizia sociale e con un proposito di sostegno dell’economia. È un compito oggettivamente difficile. Proibitivo. Il decreto approvato dal governo vorrebbe andare in questa direzione. In una qualche misura ci andrà, ma presenta due difetti che impediscono il raggiungimento di obiettivi ambiziosi. Il primo è che non ha considerato che la tassazione del reddito e l’abbattimento dei servizi pubblici ha un forte impatto depressivo. La preesistente difficoltà delle famiglie è oggettivo. Peggiorare questa situazione in modo ulteriore è molto pericoloso per la tenuta della domanda, per chi ragiona da freddo economista, ed è pericoloso per la vita civile e democratica, per chi ragiona in modo più articolato.

La tassazione sui patrimoni corrisponde alla tassazione di “redditi del passato”, che si sono cumulati. La tassazione sul reddito è inevitabilmente applicata ai redditi del futuro. Sopportare il peso del rientro dall’eccesso di debito è gravosissimo. È un peso che non possono sostenere coloro che si ripromettono di creare reddito nel futuro. Su questo punto il decreto merita una rivalutazione.

Il secondo difetto è che per sopportare il percorso di rientro del sovradebito occorre realizzare tagli e nuove entrate, ma occorre anche realizzare uno spirito collettivamente orientato all’obiettivo. Non si può trattare di una collezione di provvedimenti che scaricano il peso un po’ di qua e un po’ di là. Non può essere un gioco a sedersi fino a che ci sono sedie a disposizione. Il problema è collettivo e deve essere risolto su un piano collettivo di valutazione. In questo senso è opportuno che i vari soggetti vengano incentivati verso l’obiettivo (nuovo) di sana gestione del bilancio pubblico. Il mercato finanziario è globalizzato. Questo vuol dire che l’investitore compra quello che vuole. Se i titoli italiani sono troppo rischiosi, allora l’investitore (anche italiano) li vende e dirotta i suoi capitali in un altro contesto. Tutti gli investitori. Quelli piccoli e quelli grandi. Gli investitori istituzionali. Le banche. La globalizzazione fornisce questa estrema flessibilità ai capitali, ma non certo nella stessa misura a chi lavora e a chi produce redditi diversi da quelli di capitale.

E perché il peso del rientro dall’extra debito deve essere sulle spalle di chi produce reddito? Di lavoro dipendente, di lavoro autonomo, d’impresa? Nel 1982 venne introdotto il cosiddetto “divorzio” tra Tesoro italiano e Banca d’Italia. La Banca d’Italia non era più obbligata a comprare i titoli di Stato rimasti invenduti. Si diceva che in questo modo il ricorso al debito dello Stato italiano sarebbe stato naturalmente calmierato dal giudizio del mercato. Il ragionamento era solido, tuttora valido. Ma i fatti hanno dimostrato che era troppo ottimistico. Il mercato sanziona una politica eccessivamente basata sul debito, ma con troppo ritardo. Adesso ci serve un meccanismo diverso rispetto al giudizio del mercato. Ulteriore. Dobbiamo avere soggetti italiani che hanno capitali importanti e che sentano un vivo incentivo a seguire mese per mese il percorso di rientro e l’eliminazione delle politiche incongrue che ci hanno portato in questa situazione.

È necessario introdurre un vincolo di portafoglio che imponga a banche e investitori finanziari di portare una percentuale congrua del loro portafoglio sui titoli di stato italiani, maggiore rispetto all’attuale percentuale. Le banche hanno realizzato buoni utili anche nel recente passato. Non risultano in alcun modo toccate dall’ultimo decreto. Anzi in questo decreto e in quello precedente hanno sottilmente ottenuto nuovi vantaggi.

Non possiamo dunque imporre ad altri paesi di comprare titoli pubblici italiani. Alle banche sì, e questo strumento si chiama vincolo di portafoglio. Dal giorno in cui tali operatori avranno l’obbligo di “legarsi” ancora di più al rischio Italia, avremo a disposizione attenti e acuti osservatori, “banche di sistema”, che ci consiglieranno su una buona gestione delle operazioni collettive e che non considereranno più il bilancio pubblico “terzo” rispetto al proprio. Ma anche i cittadini vedrebbero meglio una misura di questo tipo. Meglio un vincolo di portafoglio relativo ai loro titoli, che una tassazione patrimoniale, e ancora di più rispetto ad una tassazione sul reddito a livelli intollerabili.

*Giulio Tagliavini è profesore ordinario di Economia degli intermediari finanziari presso l’Università degli Studi di Parma 

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