BERLINO – In un momento di alta tensione un ribelle in Congo cerca disperatamente di mettersi in contatto con il suo superiore. È nervoso, deve assolutamente assicurarsi che l’ordine ricevuto significa quello che lui ha capito: si tratta di vita o di morte, ha bisogno di una seconda conferma. Da 6100 km di distanza il suo capo in Germania ha trasmesso un ordine chiarissimo e drammatico «Create una catastrofe umanitaria». È ovvio che si tratta di azioni che avranno conseguenze: il guerrigliero, il cui nome in codice è “Radja”, ha già mandato tre sms, ma non ha ottenuto risposta.
Due ore più tardi Radja ci riprova, è l’8 maggio 2009, sono le 16:19 a Mannheim, in Germania. Ora il presidente delle Forze Rivoluzionarie per la Liberazione del Ruanda (Fdlr), gruppo di ribelli di etnia hutu nel est del Congo, torna dall’asilo dove ha appena recuperato suo figlio di cinque anni e ha tempo di rispondere. La catena degli ordini si lascia ricostruire attraverso i tabulati della compagnia telefonica Thuraya di Abu Dhabi. I soldati del gruppo ribelle hutu entrano nella notte nella cittadina di Busurungi nella regione di Kivu: sparano a decine di civili, altri vengono massacrati con i macete, muoiono 96 persone in tutto, 23 donne, 26 bambini e sette anziani.
Di questo e altri massacri si parla in questi giorni a Stoccarda nel processo contro Ignace Murwanashyaka, 48 anni, leader del Fdlr, il movimento che rappresenta l’evoluzione attuale dell’esercito e delle milizie che perpetrarono nel 1994 il genocidio contro l’etnia Tutsi, e che è considerato dalle organizzazioni dei diritti umani come artefice dei peggiori crimini contro le donne, tristi protagoniste di una guerra in cui vengono sistematicamente violentate e uccise. Per la Germania, si tratta del primo processo dall’introduzione del codice di diritto penale internazionale (VStGB), nel 2002.
Il suo nome figurava da anni nella “lista nera” delle Nazioni Unite, e sulla sua testa pesava un ordine di arresto internazionale spiccato dall’Interpol e nonostante tutto guidava l’organizzazione all’ombra di una vita tranquilla in diverse cittadine delle Germania. L’inchiesta mette in luce chiaramente come internet e le telecomunicazioni al giorno d’oggi rendano possibile portare avanti guerre tra le mura sicure di una democrazia europea. Si tratta della banalità del male di chi conduce, attraverso la casella di posta di gmx in Germania, il conflitto più sanguinoso attualmente in atto su questo pianeta. Ignace Murwanashyaka è stato arrestato alla fine del 2009 nella sua casa di Mannheim, da fine maggio è protagonista a Stoccarda di un processo senza precedenti nella storia di questo paese.
La storia di Murwanashyaka è stata portata alla luce per la prima volta nel 2009 dal giornalista Markus Frenzel che intervistò il capo dell’Fdlr a casa sua, e vinse, grazie a questo servizio per la televisione pubblica Ard, il premio per il giornalismo dei diritti umani di Amnesty International. Dal salotto di casa sua quest’uomo smilzo con gli occhiali e la parlata sciolta guardava nella telecamera di Frenzel e diceva chiaramente in tedesco perfetto: «Ich bin der President dieser Organisation. Ich weiss ganz genau was geschiet», (Sono il presidente di questa organizzazione e so esattamente tutto quello che succede). Frenzel ha recentemente pubblicato un libro che si chiama Leichen im Keller, cadaveri in cantina, in cui cerca di capire com’è possibile che un paese europeo permetta che accadano episodi come questo.
«Murwanashyaka viveva in Germania, questo si sapeva dall’ordine d’arresto dell’Interpol. Allo stesso modo il suo nome figurava nella lista nera delle Nazioni Unite, lì si diceva “resident in Germany”. Mettersi in contatto con lui è stato incredibilmente semplice. Fino a qualche anno fa l’organizzazione aveva una pagina internet, fdlr.org, ed era la homepage internazionale dei ribelli: qui compariva il suo nome e il suo numero di telefono cellulare», ha raccontato Frenzel in un’intervista con Linkiesta.
Difficile, anche per questo giornalista che ha assunto un ruolo fondamentale nell’arresto del leader ruandese, spiegare come sia stato possibile. Il ministero degli Esteri tedesco non ignora che in Congo è in atto una guerra che ha causato circa sette milioni di morti dal 1994 ad oggi e rappresenta «una delle guerre più atroci dell’attualità nel mondo intero». Semplicemente, secondo Frenzel, «non ci si riusciva ad immaginare che questo piccolo, smilzo, e apparentemente debole uomo potesse essere di fatto tra le teste della guerra».
Nato in Ruanda a Butare nel 1963, Murwanashyaka vive in Germania dal 1989, negli anni dell’università di Scienze Politiche a Bonn partecipò all’organizzazione di movimenti universitari transnazionali simpatizzanti con gli Hutu. Nel 2000 ha ottenuto l’asilo politico e vive da allora a Mannheim. «Dopo il genocidio in Ruanda l’intera gerarchia Hutu cambiò completamente, perché all’improvviso le figure di peso, tanto i rappresentanti politici come i vertici militari, vennero ricercati per crimini di guerra e contro l’umanità. Significa che gli alti vertici erano discreditati e dovevano essere velocemente sostituiti. Un’importante figura politica che stava dietro agli Hutu fu Joseph Kabila, e fu proprio lui che si convertì in qualche modo nel protettore di Murwanashyaka», ha spiegato Frenzel.
Bisogna aggiungere che Murwanashyaka è un uomo colto, con una formazione eccellente, sa parlare e negoziare, e soprattutto non ha le mani sporche. Per tutte queste ragioni presenta da subito come un candidato perfetto per condurre l’organizzazione. Dal 2001 svolge attività diplomatica per l’Fdlr. Nel 2005 è già tra i vertici dell’organizzazione tanto che viene arrestato in Germania nel 2006 ma rimesso in libertà poco dopo per mancanza di prove. Devono passare ancora altri anni perché le autorità tedesche si rendano conto di avere il “male” in casa. «La condotta delle guerre è da sempre stata solo una questione di comunicazione e oggi la comunicazione è più semplice e rapida che mai. Io posso mandare un ordine da Mannheim e un secondo più tardi raggiunge i soldati in un piccolo villaggio nella foresta», spiega Frenzel. Il contatto tra Murwanashyaka e le sue truppe è quotidiano: i guerriglieri gli mandano proposte per mail, lui legge, fa le sue osservazioni, risponde e loro eseguono. Semplice ed efficace.
Il leader dei ribelli è talmente sicuro della sua posizione in Germania e talmente orgoglioso del suo ruolo che non ci pensa due volte prima di concedere l’intervista in cui ammette di essere presidente dell’Fdlr. «Prima dell’intervista ebbi la sensazione che non sapesse cosa stava facendo. Però quando lo intervistai mi resi conto che era assolutamente sicuro che in Germania non potesse succedergli niente. Era ricercato da anni dall’Interpol, si trovava sulla lista nera delle Nazioni Unite, aveva i conti in banca all’estero bloccati, era stato oggetto di ricerche da parte dei maggiori giuristi tedeschi, ma viveva indisturbato», ha spiegato Frenzel, «Naturalmente anche la vanità giocò un ruolo. Si può osservare anche nel processo: come guarda le telecamere, come sorride, come si muove. È una persona orgogliosa e voleva dire pubblicamente di essere il presidente».
Nel processo di Stoccarda è ora accusato come responsabile di 39 crimini di guerra e 26 crimini contro l’umanità. Le prove questa volta sono molto più consistenti di quanto non lo fossero nel 2006: «Ci sono le registrazioni dei contatti telefonici. C’è un documento che fu trovato dalle Nazioni Unite a Kivu e in cui si descrive la sua posizione nei vertici del Fdlr: si tratta di una dichiarazione ufficiale timbrata e dice in modo molto chiaro che lui ha la responsabilità della condotta delle operazioni militari. C’è anche un ordine via sms: “Causate una catastrofe umanitaria contro la popolazione civile“, il consiglio di sicurezza dell’Onu intercettò il messaggio nel 2009».
Sono tuttavia in molti in Germania a dubitare che si possa arrivare ad una condanna dell’imputato. In primo luogo perché i procuratori tedeschi dipendono dall’appoggio legale ruandese, altrimenti non potrebbero interrogare testimoni in questo paese. La procura generale in Ruanda ha tutto l’interesse a che si arrivi a una condanna rapida di Murwanashyaka, tanto che in passato chiese l’estradizione. La difesa denuncia la difficoltà di citare testimoni che possano far cadere le accuse, per il rischio che debbano fare i conti con «minacce, torture e morte». Ed è per questo che ha scelto come linea quella di descrivere il Ruanda come «un paese di tortura», «uno stato fallito», «una dittatura»: una tesi che sicuramente non sarà difficile argomentare.