Tre mesi. Sono serviti 90 giorni di trattative per innalzare il tetto del debito statunitense ed evitare il default. Era il 2 maggio quando il segretario del Tesoro Timothy Geithner scrisse al Congresso, avvertendoli dell’incombenza che spettava loro. Oggi, dopo tre mesi, democratici e repubblicani hanno trovato un accorrdo e il debt ceiling da 14.290 miliardi di dollari, giù superato da mesi, non farà più paura, almeno per ora. Continuano invece a incutere timore due aspetti: la leadership del presidente Barack Obama, a più riprese perdente nel confronto con lo speaker della Camera John Boehner, e la possibilità di un downgrade del debito sovrano, ancora non scongiurata.
Dopo l’ennesimo stallo fra repubblicani e democratici, a cui è seguito l’appello di Obama, ha fatto temere il peggio. Invece, nella mattinata di Washington è successo qualcosa che ha fatto ben sperare per un accordo positivo. Il leader dei repubblicani in Senato, Mitch McConnell, alla CNN ha apertamente detto che «un deal definitivo è davvero vicino, non vogliamo che si arrivi a un default». Parole che hanno una valenza particolare, in quanto McConnell ha più volte appoggiato la linea tenuta da Boehner. «Si va verso un accordo da 3.000 miliardi di dollari», ha detto il senatore. La risposta dei democratici non si è fatta attendere. Il senatore Charles Schumer si è detto «rasserenato» dall’esito delle trattative. «C’è sollievo a Capitol Hill, il default è molto meno probabile ora». Dopo poche ore gli faceva eco il consigliere speciale della Casa bianca David Plouffe: «Non c’è ancora un accordo definitivo, rimangono ancora diverse questioni irrisolte, ma la strada è buona». Alle 19 italiane, il voto del Senato ha sancito la fine della prima versione piano del senatore Harry Reid, bocciandolo immediatemente perché non contentente le parti volute dai repubblicani. Subito dopo, il capo della comunicazione della White house, Dan Pfeiffer, rimarcava su Twitter che non c‘era ancora un accordo. Infatti, repubblicani e dems erano ancora divisi su alcuni punti. Boehner ha convocato d’urgenza una riunione per fare il punto e trovare una soluzione con Reid. Finalmente, dopo diverse ore, tutte le parti hanno trovato la quadratura della querelle più snervante per Obama, che alle 2:45 italiane parla alla nazione spiegando parte del programma di aumento del debt ceiling. Mille miliardi di dollari di sforbiciate alla spesa subito e due miliardi nel 2012, con un l’apertura di un nuovo tavolo di discussione sul tetto all’indebitamento. In pratica, la soluzione di breve termine che Obama aveva sempre osteggiato.
I tagli principali riguarderanno due settori in particolare, difesa e previdenza sociale. Non saranno toccate le tasse, come invece circolava negli ambienti repubblicani fino a pochi minuti dal voto. Le sforbiciate saranno sull’intero programma Social Security. Non solo Medicare e Medicaid, come si era sempre detto, ma anche Supplemental security income (Ssi) e State children’s health insurance program (Schip). Ques’ultima riduzione al budget potrebbe costar caro a Obama, in termini di voti. Il programma Schip sostiene le spese mediche dei bambini ed è stato fortemente voluto da Ted Kennedy nel 1997, trovando un appoggio anche in Hillary Clinton, allora first lady del presidente Bill Clinton. Da sempre uno dei capisaldi dei democratici, con Obama subirà invece diversi tagli, ancora non quantificati da Washington, come ha specificato Plouffe. E questa notizia rischia di abbassare ulteriormente il consenso di Obama fra i suoi elettori, fermo al 40% secondo Gallup.
Arrivato l’accordo sul debito, ora si attende la risposta dei mercati e delle agenzie di rating. Il capo economista di Moody’s, Mark Zandi, ha spiegato ai microfoni della CNN che un accordo come quello approvato «dovrebbe bastare per evitare un downgrade». Resta da vedere quale sarà invece l’atteggiamento che terrà Standard & Poor’s. Nella nota in cui metteva in outlook negativo il rating statunitense non si parlava solamente di debt ceiling. Due i driver, secondo S&P, della possibile perdita del rating AAA da parte di Washington. Da un lato il fatto che, a più di due anni dall’inizio della crisi finanziaria, l’America non ha ancora ritrovato la forza economica precedente. Dall’altro, il processo di deterioramento delle attività occupazionali continua a essere molto intenso, limitando l’accesso al mercato del lavoro dei più giovani. La disoccupazione infatti è al 9,2%, con un picco del 24,5% per la fascia dai teenager, per un totale di 14,1 milioni di persone in cerca di lavoro. Ma non c’è solo questo.
Nel 2012 Casa bianca, Tesoro e Congresso torneranno a discutere di debt ceiling. E nel frattempo Obama dovrà dimostrare di aver recuperato tutta la fiducia perduta negli ultimi mesi. La credibilità internazionale degli Stati Uniti è stata fortemente ridimensionata dal pasticcio del debito e da un braccio di ferro fra Obama e repubblicani che è servito solo a innervosire cittadini, mercati e investitori. Inoltre, come evidenziato da Geithner, l’economia americana sta mostrando segni di rallentamento. L’ultimo dato sul Pil del secondo trimestre, +1,3%, è in netta frenata rispetto ai tre mesi precedenti, quando si era attestato all’1,8 per cento. Ancora, i prezzi delle case sono scesi del 4,5% su base annua in maggio, un dato peggiore delle previsioni. Il mercato immobiliare infatti è ancora molto nervoso, come anche quello dei bond delle amministrazioni locali, oltre 5.200 miliardi di dollari di asset con sempre più rischi d’insolvenza. Passata la paura per il debito, rimane quella per il downgrade di un’economia sempre più anemica.