In retrospettiva, quale è stata l’influenza dei social media sui referendum?
«In linea di massima penso che queste siano state occasioni per far emergere un fenomeno carsico di voglia di politica, di capacità di partecipare e di affrontare e risolvere alcune questioni di natura politica. Credo che, nel caso dei referendum e prima delle amministrative, questa voglia di politica si sia saldata con la disponibilità di piattaforme tecnologiche utili per organizzare soggetti che condividono questa voglia di politica al di fuori del riferimento ai classici partiti. Si tratta quindi della combinazione di due fattori positivi: soggetti disponibili a impegnarsi e opportunità di farlo al di fuori dei partiti. L’impegno avviene al di fuori dei partiti perché si tratta di un aspetto necessario rispetto allo scenario politico. Queste esplosioni di vitalismo politico che si manifestano tramite il web sono destinate ad avere degli up and down, si tratta di fenomeni volatili. Se dovesse esserci una nuova mobilitazione oggi, probabilmente assumerebbe forme diverse e coinvolgerebbe persone diverse rispetto al passato. Un esempio potrebbe essere quello di Obama, che ha organizzato una campagna al di fuori dei partiti, che sono diventati solo dopo referenti. Tuttavia, quel contesto non ha retto una volta che Obama ha tentato di creare una sorta di “governo 2.0”. La caratteristica comune è che queste forma di attivismo politico hanno vita breve e si manifestano su temi diversi»
Se si è iniziato a delineare l’intervento dal basso, quale è il rapporto dei politici italiani con la rete come mezzo di comunicazione?
Sto analizzando, in una ricerca, i parlamentari italiani. Su circa mille parlamentari, 220 hanno un sito vero e proprio, 139 gestiscono un blog che si può definire attivo, 342 hanno una pagina su Facebook, 127 un canale di Youtube e 92 un account su Twitter. Al di là dei numeri, la funzione attribuita a questi canali è quella della pura e semplice autopromozione. Durante un periodo di osservazione, a Febbraio 2011, all’apice della primavera araba, la politica estera è quasi totalmente assente dalla comunicazione su internet dei politici. Pur essendo presenti su diverse piattaforme, queste non vengono usate se non per i propri comunicati stampa e dichiarazioni. È un approccio old media. Cercano di ricreare un sistema che non li accoglie dal punto di vista mediatico, perché molto spesso sono dei peones, che non suscitano alcun interesse o commento. C’è anche un’altra contravvenzione basilare, perché molto spesso a scrivere sono i membri dello staff. I blog di questi politici sono estranei e marginali nella blogsfera ed è una forma di autopromozione che dà scarsissimi risultati, con pagerank bassissimi. Twitter, in questo senso, è ancora più rivelatore: con i suoi 140 caratteri, o si ha davvero qualcosa da dire, oppure è meglio stare zitti.
Gli utenti della rete hanno ancora l’impressione che il web sia uno spazio contendibile, a differenza degli old media?
Internet in generale e il web sono comunque terreni monopolizzati da grandi gruppi, e quindi c’è una riproposizione di equilibri di potere che sono anche presenti offline. Per quello che riguarda la dimensione politica però si verifica una situazione molto diversa. Grazie al web, è la definizione stessa di politica ad essere cambiata. Ci sono espressioni, come la lotta contro la Tav o per la salvaguardia del proprio quartiere, che possono trovare un sostegno comunicativo e organizzativo.
Quali sono i fattori che spingono alla mobilitazione?
Ci sono due elementi: la rete degli amici, che costituisce una garanzia di interesse ed è una mediazione. Oltre a questo, c’è un altro dato: l’effetto traino derivante dalla numerosità di persone che partecipano a un gruppo o a un’iniziativa sulla rete, perchè più è alto il numero di sostenitori, più le persone sono propense a partecipare. Si tratta di un effetto bandwagon.
La rete è capace di mobilitarsi allo stesso modo su tematiche specifiche e su temi generali?
Ci sono due tipi di reazione e mobilitazione perché un evento concreto e specifico porta a forme di sostegno e pressione. Sulle grandi questioni teoriche quello della rete è invece un contributo da discussione. Se pensiamo alla crisi economica, è evidente che scatta un meccanismo di riflessione e confronto, di ricerca di voci e approcci diversi, che aiutino a capire le dimensioni del fenomeno. E questa riflessione e ricerca non è detto che poi si traduca in qualcosa di concreto.
(Sara Bentivegna è professore ordinario di Comunicazione politica e Teorie e tecniche della Comunicazione e dei nuovi media all’Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato volumi per Laterza, Carocci e Meltemi. L’ultimo è Disuguaglianze digitali, uscito nel 2009).
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