Ma questa volta quando privatizzate non svendete

Ma questa volta quando privatizzate non svendete

Più volte su queste pagine è stata paragonata la situazione attuale dell’Italia a quella dell’Urss sul finire degli anni Ottanta: come il Cremlino dell’epoca, abbiamo una classe politica autoreferenziale, manovre economiche basate sulle tasse, e una disincentivazione sistematica alla libera impresa. Alla luce il disastro delle manovre decise in Italia nelle ultime settimane, rimane solo una cosa da fare: dopo essere stati l’Unione Sovietica del 1987, cerchiamo di non diventare la Russia dei primi anni Novanta. È in arrivo un periodo devastante di privatizzazioni nell’ambito di uno stato debole: la crisi finanziaria è diventata economica, e potrebbe trasformarsi in crisi sociale, se non addirittura civile.

Il governo italiano ha affrontato la crisi finanziaria italiana con una dabbenaggine senza precedenti. Una prima manovra correttiva è stata travolta dal mercato. Il governo ha reagito sostenendo, davanti a tutto il parlamento, che “il mercato sbaglia”, e il giorno dopo il tilt della borsa è stato così devastante, da portare a una “sospensione tecnica” di Piazza Affari. Ci ha salvati l’Europa, che ha acquistato i nostri titoli pubblici. Il governo ha emesso quindi una seconda manovra economica di puro aumento delle tasse, guarnita di qualche contentino di riduzione della spesa, basato sulla logica della cieca mannaia, più che della programmazione di sistema.

I prossimi passi sono già segnati. Bisognerà iniziare a vendere un bel po’ di beni, come già a iniziato a fare la Grecia. Nel mirino sono state già puntate le aziende della triade (Eni, Enel, Finmeccanica), ma ci sono da mettere sul piatto immobili, enti, porti, infrastrutture, aziende di trasporti.
Se questa vendita dovesse avvenire nelle condizioni attuali, il paese precipiterebbe in un barato anche peggiore del periodo di svendita di vent’anni fa, quando l’Italia perse il polo chimico, il polo elettronico e il primato nelle telecomunicazioni. Nuovi ricchi sono pronti a salire alla ribalta, il cui unico merito distintivo sarà il rapporto preferenziale con gli enti finanziatori, oltre alla capacità di intrattenere i rapporti con chi vende.

Come “condizioni attuali” del paese ci riferiamo a un sistema giudiziario tra i più lenti al mondo, a una Guardia di finanza che ancora deve ripulirsi da ombre e sospetti, a organi di controllo e vigilanza che non riescono a tenere il passo delle vicende nazionali. Per dirla con Samuel Huntington, se si liberalizza in un contesto privo di strutture di controllo e giustizia, si finisce in condizioni di “pretorianismo”, in cui i forti vincono e si accaparrano tutto, con buona pace della giustizia sociale.
Si sta continuando a discutere di possibili correttivi alla manovra, con una maniera di procedere che, a non essere italiani, potrebbe anche sembrare divertente. Bisognerebbe ora avere il realismo necessario per concentrarsi sulle strutture che dovranno controllare le inevitabili privatizzazioni, altrimenti il crack sarà davvero irrecuperabile. Come la Russia dei primi anni Novanta, siamo sottoposti a un attacco speculativo, motivato anche da problemi “reali” dell’economia. C’è un’industria in affanno, ma ci sono poli ricchi di capitale che non trova sbocchi. Se salta il tappo, salta il banco.

In assenza di una concentrazione vera sugli organismi giudiziari e di vigilanza, la manovra finanziaria del governo rischia di diventare un “8 settembre” dell’economia italiana. Il re si arrende e fugge a Brindisi: allo stesso modo, il governo inchioda il paese a una manovra insostenibile (oltre il 52% di aliquota massima!), e poi magari subentrerà un governo tecnico, senza responsabilità politiche; e la svendita potrà iniziare. Per amor di patria: bisognerebbe iniziare adesso a prepararsi al peggio. Bisogna iniziare a gestire ora il fallimento.

E ci sarà un altro danno, di tipo ideologico, che andrà oltre all’eredità del Berlusconismo – con Berlusconi eponimo di un fenomeno molto più grande della sua opera. È quello che si farà all’idea liberale. Liberalismo non significa privatizzazione, sopruso, svendita: liberalismo significa meritocrazia e sviluppo. Se si metteranno Eni, Enel e Finmeccanica sul bancone della carne non sarò per far contento Milton Friedman e i neoclassici di Chicago: sarà solo in nome dell’incapacità di gestire l’economia nazionale.

Tra liberalismo assoluto e statalismo esistono tante vie di mezzo: in particolare, i modelli di mercato possono funzionare benissimo anche con la partecipazione di soggetti pubblici. In un paese come il nostro, però, il prelievo fiscale è tra i più alti al mondo, ed è in crescita. Si deprime l’iniziativa privata, e si svende il bene statale a chi è più forte. Tasse alte significano solo che si riduce la mobilità sociale, e che solo i colossi e i grandi accentratori di capitale sono in grado di sopravvivere.
Il governo italiano è tutt’altro che liberale. “Liberale” non è questa schifezza di co.co.pro. e precari, lauree inutili e mille euro al mese, affitti carissimi e immobili alle stelle, super-orari di lavoro e mobilità sociale annientata, indigenza e brutta televisione, giovani allo stato brado che pascolano nelle discoteche, ferie passate in casa e ministri arroganti, in un tripudio di povera apparenza che farebbe felice Guy Debord. Questa è solo incapacità giustificata da “nuovo paradigma”, a spese dell’idea liberale.

Così ci troveremo in una situazione in cui non ci saranno né soldi, né capacità di produrre valore aggiunto per sostenere lo stato sociale, con buona pace dei desideri di sinistra. Anche in questo caso somiglieremo alla Russia degli anni Novanta. Perché poi in Russia, dopo gli anni della crisi di Eltsin, è stata la democrazia a pagare lo scotto della crisi. È questo il futuro che vogliamo?

*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e Senior Fellow di bigs-potsdam.org